Nella notte della Vigilia di Natale del 1977, ci lasciava – a Corsier-sur-Vevey, in Svizzera – Sir Charles Spencer Chaplin, fra i più importanti artisti del panorama culturale e cinematografico mondiale. Nato a Londra il 16 aprile 1889, Chaplin è stato fra i più influenti cineasti del XX secolo, autore di oltre novanta film – tra corti e lungometraggi – nonché figura di notevole impatto nell’industria hollywoodiana degli albori. 

Chaplin è The Tramp, il vagabondo, è Charlot per com’è riconosciuto dal pubblico italiano: il suo personaggio più celebre – che abbiamo analizzato approfonditamente in questo articolo – ha assunto, nel corso dei decenni, uno status iconico che ha valicato i confini della pellicola cinematografica. Il vagabondo perennemente “povero in canna”, con bombetta e abiti consunti, con scarpe troppo grandi e bastone da passeggio, ha saputo parlare un linguaggio universale, nonostante il suo mutismo, in cui il dramma dell’indigenza è in equilibrio con la natura comica delle peculiari situazioni. 

Alla sua prima apparizione su pellicola, la povertà di Charlot si contrappone a un mondo borghese che sfreccia in sella al progresso: specialmente durante il periodo Keystone (1914), il vagabondo si ritrova malgré lui in un contesto benestante, come accade in Kid Auto Races at Venice (1914); nonostante la sua visibile condizione precaria, The Tramp tenta il tutto e per tutto pur di simulare quella disinvoltura tipica della classe borghese dei primi anni del Novecento. Sarà nelle produzioni successive – e dirette da Chaplin stesso – che la marginalizzazione della povertà e la miseria (economica) saranno temi ricorrenti di corti e lungometraggi di successo. 

L’emigrante (The Immigrant, 1917)

Un meccanismo difettoso: dalla Keystone alla Mutual (1914-1917) 

In un’epoca dove la “corsa all’arricchimento” pare inarrestabile, lo stralunato Vagabondo sceglie – in virtù del proprio carattere tenace – di non soccombere al progresso in quanto membro di una classe sociale emarginata, bensì di “cavarsela”, nonostante tutto. È maldestro, ma di buon cuore; tenta di mantenere un comportamento “sofisticato”, nonostante sia cosciente del suo stato di povertà; è esponente di quella rivolta umanistica che si scaglia contro le ingiustizie della società, nonostante sia costretto a essere perennemente l’ultima ruota del carro. 

Nei periodi Keystone (1914) ed Essanay (1915-16), la maschera-Charlot è protagonista di una serie di situazioni che pongono in risalto queste dinamiche proprie del Vagabondo stesso. Charlot, allora, si ritrova in una serie di situazione – in cortometraggi più o meno articolati – nelle quali la cattiva sorte lo perseguita, nonostante egli tenti di tutto pur di raggiungere il proprio scopo: generalmente, a seguito di una serie di malintesi e rapide fughe, uno scontro frontale risolve la situazione – non a favore di Charlot, s’intende. 

È nel periodo Mutual (1916-17) in cui i temi dell’indigenza e dell’emarginazione sociale iniziano a sortire dalle produzioni con protagonista il Vagabondo chapliniano. Fra i film di maggior impatto, è certamente L’emigrante (The Immigrant, 1917) il cortometraggio più noto: Charlot si ritrova a condividere un periglioso viaggio a bordo di una nave con un gruppo di migranti che covano il sogno americano, e sperano di poter migliorare la propria condizione socioeconomica. Alle gag che animano il viaggio verso gli Stati Uniti si contrappongono momenti in cui la povertà – unitamente al timore verso il Mondo Nuovo – scuote gli animi dei passeggeri: a questa disperazione Charlot non riesce mai a restare indifferente, dimostrando, così come nei precedenti cortometraggi, la sua natura intrinsecamente buona e altruista, in contrapposizione con altri personaggi (ad esempio, il capitano della nave, il cameriere del ristorante dove Charlot si ritrova a pranzare). In un mondo in cui chi è più forte – sia in termini di posizionamento nella piramide sociale, sia per quanto concerne il carattere individuale – riesce ad avere la meglio, il Vagabondo risulta essere un “ingranaggio difettoso”, giacché, a differenza dei suoi comprimari indigenti, non si lascia intimorire, e trova sempre un modo per cavarsela, pur senza migliorare la propria condizione. 

Vita da cani (A Dog’s life, 1918)

Il periodo First National (1918-23): Vita da Cani (1918) e Il monello (1921)

Forse è Vita da Cani (A Dog’s Life, 1918) il film che ha impresso nella memoria collettiva l’immagine di Charlot in quartieri cittadini poverissimi e sorvegliati da uno stereotipico “poliziotto cattivo”. Per molti versi, Vita da Cani anticipa le atmosfere, le gag e le riflessioni argomentate successivamente nel capolavoro Il monello (The Kid, 1921), prodotto sotto l’egida della First National. 

Intorno al rapporto di amicizia che si instaura tra Charlot e il cucciolo, sussiste una profonda denuncia verso lo stato d’indigenza nel quale riversano i bassifondi della città senza nome nella quale si susseguono le vicende del film. Charlot stesso entra in scena mentre è intento a dormire per strada, svegliato solo dal penetrante profumo di hot dog venduti da un commerciante ambulante: successivamente il vagabondo viene mostrato mentre tenta di ottenere un lavoro, ma invano, data la spietata concorrenza causata da un ambiente poverissimo. Nonostante l’evidente stato di povertà, Charlot non esita nell’adottare il cagnolino protagonista della pellicola, il quale sarà, inoltre, il personaggio cardine delle vicende successive e il mezzo attraverso il quale il Vagabondo potrà migliorare la propria condizione. 

Il monello (The Kid, 1921)

Ancor più complesso e accusatorio nei confronti del tremendo divario fra ricchezza e povertà è Il monello, considerato fra i film più importanti della storia del cinema e dell’opera di Charles Chaplin. Nei quartieri più poveri di un’anonima città, Charlot cresce un neonato abbandonato dalla giovane madre “sedotta e abbandonata”: se, a differenza di Vita da Cani, il Vagabondo tentenna nel voler “adottare” il piccolo, successivamente si evince come la narrazione del rapporto fra Charlot e il “monello” (il giovanissimo Jackie Coogan) risulti essere non solo più complessa, ma anche cosciente dell’orizzonte storico-culturale in cui è inserita. Non passano inosservate al potere costituito le condizioni di estrema povertà in cui riversano i due protagonisti, e per questo il monello viene strappato dalle braccia del genitore adottivo nel corso di una scena dai fortissimi toni melodrammatici. Oltre alle riflessioni concernenti la famiglia, l’abbandono e la volontà di non piegarsi alle norme stabilite dalla legge, Il monello è il film che fra tutti ha saputo delineare i tratti della povertà che attanagliava i sobborghi delle grandi città statunitensi, infrangendo, dunque, il mito del sogno americano. 

Sotto l’egida della United Artists (1923-52)

Certamente è durante il florido periodo produttivo alla United Artists che Charles Chaplin matura ed elabora, attraverso svariati punti di vista, il tema della povertà. In un certo senso, l’indigenza risulta essere elemento comune della maggior parte dei lungometraggi realizzati sotto l’egida della United Artists: in un modo o nell’altro, Chaplin non abbandonerà mai il tema della povertà, soprattutto in virtù della sua relazione con il Vagabondo, il quale saluterà definitivamente il suo pubblico con il capolavoro Tempi Moderni (Modern Times, 1936). 

La febbre dell’oro (The Gold Rush, 1925)

Ne La febbre dell’oro (The Gold Rush, 1925), ad esempio, Charlot tenta di modificare la propria condizione di vagabondo: così come altri indigenti ed emarginati dalla società, egli tenta “il colpaccio” recandosi nel Klondike alla ricerca di qualche pepita d’oro. Tuttavia, sulle alte cime montuose e innevate, sarà nuovamente la miseria a prendere il sopravvento: ed è proprio rinchiuso entro le quattro parenti di una baita di fortuna che Charlot consumerà il suo pasto “da povero” per eccellenza, ossia una scarpa bollita con tanto di lacci simili a spaghetti. 

Lasciati i cercatori d’oro, ritroviamo Charlot alle prese con una compagnia vagabonda ne Il circo (The Circus, 1928), film comico fra i più noti di Chaplin, nel quale la vena ironica dell’autore è arricchita di poesia e sentimento – benché la produzione del film sia stata alquanto tormentata. Se ne La febbre dell’oro Chaplin redigeva un quadro tanto umoristico quanto drammatico della disperata caccia alla ricchezza, ne Il circo il cineasta britannico si preoccupa di raccontare le precarie condizioni di vita di una compagnia circense, condizioni ben note a Chaplin stesso sin dal periodo 1906-1907, quando entra nel Circo di Casey caratterizzato da un mix di varietà e numeri circensi – prima di entrare nella compagnia di Fred Karno insieme al fratello Sydney. 

Il circo (The Circus, 1928)

Con Luci della città (City Lights, 1931) e Tempi Moderni (Modern Times, 1936) – e alle soglie dell’addio a Charlot – Charles Chaplin non abbandonerà mai il tema dell’indigenza, pur affiancandolo alla trattazione di questioni contingenti, come il problema dell’industrializzazione e dell’alienazione dell’uomo moderno nella società. Certamente influenzato dalle origini umilissime, Charles Chaplin è riuscito a farsi portavoce di vagabondi, orfani, emigranti, cuccioli abbandonati e, in generale, di una schiera di individui osteggiati dalla società del progresso e dalle leggi del potere costituito. Con umanità e ironia, Chaplin ha scelto di raccontare lo stato di abbandono di classi meno abbienti, di dar loro voce non attraverso fiumi di parole, ma attraverso il linguaggio universale del corpo e del gesto. 

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Shannon Magri,
Redattrice.