Non è un mistero che per certi grandi personaggi della storia, specialmente scrittori, non esistano biopic interessanti: spesso ciò che cotanti autori hanno lasciato di scritto al mondo è di gran lunga più appassionante delle loro biografie. Questo vale anche per William Shakespeare, per cui, tra l’altro, esistono pochissime fonti narranti le gesta di vita vissuta. Ecco perché spesso si va a finire come in Shakespeare in Love, un pastiche che cerca di delineare una trama cinematografica mescolandone due teatrali. Avviene qualcosa di simile anche in All is True, fanta-biopic poco noto del Bardo realizzata da Kenneth Branagh e distribuito in sordina nel 2018. A discapito del titolo, All is True s’inventa quasi tutto sulla vita del padre della lingua inglese, trattenendone solo alcune suggestioni. Il titolo italiano Casa Shakespeare, invece, eloquente ma orribile, sembra evocare una sorta di brutta fiction intorno ai vincoli familiari di Stratford-Upon-Avon; d’altra parte, in Italia il ‘barbaro non privo di ingegno’ (come lo definì Alessandro Manzoni) non ha mai attirato grande interesse, tanto che, da noi, Casa Shakespeare non è mai nemmeno veramente uscito al cinema. 

Le colpe degli uomini sono incise sul bronzo, i meriti sull’acqua 

In ogni caso, piacere a tutti non è mai stato l’obiettivo di Kenneth Branagh, che ha voluto produrre questo film relativamente piccolo incastrandolo tra i ben più grossi Assassinio sull’Orient Express ed Artemis Fowl. Ma senza dubbio c’è tutta la passione dell’autore per la materia: Kenneth Branagh è quello che ha riportato Shakespeare a Hollywood con Enrico V nel 1989, e il demiurgo dell’unico Hamlet integrale sul grande schermo. Insomma, Sir Ken di Shakespeare ne sa, e sarà ben conscio anche di ciò che non si può sapere sulla vita del personaggio storico, dove è andato accuratamente ad aggiungere quello che gli sembrava ragionevole dire intorno al personaggio. Ovviamente sarà istrionico come suo solito, anche qui coperto di trucco prostetico come per Poirot, ma animato di sentimenti onesti e composti.

Si parte dall’inizio della fine: nel 1613 un effetto di scena fatto male incendia e distrugge il Globe Theatre di Londra, la sede della parola e della fama shakespeariana. L’autore, inesorabilmente retrocesso al ruolo di uomo semplice, è costretto a cambiare palco e così torna nella sua città natale, Stratford-Upon-Avon, un borgo di campagna dove ha lasciato la famiglia perennemente trascurata. Qui la trama prende la via dell’ipotetico, non certificato. Attendono a casa Shakespeare una moglie anziana e ostile (la severa ma infine tenera Judi Dench), due figlie in età da marito e il lutto a lungo rinviato per la morte dell’unico figlio maschio, perduto anni addietro e mai adeguatamente compianto. In questa nuova dimensione periferica, Mastro William si adatta alla mentalità di campagna, tra orti, messe e malelingue, cercando di portare a compimento tutto ciò che aveva lasciato indietro. 

I nostri corpi sono giardini e noi i giardinieri 

Esteticamente l’opera è assai curata, a partire dalle due dissolvenze iniziali che riproducono quadri reali: il Chandos Portrait di Shakespeare e l’Incendio di Londra di Turner. E poi è tutto un metaforico autunno, brillante negli esterni e buio e claustrofobico negli interni, illuminati a candela. Questa scelta tecnica è filologicamente sensata, ma soprattutto esplicativa degli stati d’animo dell’autore che ha dipinto ogni natura umana ed è ora confinato ad un’angusta inattività. Dedito al proposito di edificare un giardino in memoria del figliolo, il vecchio padre cerca di ritrovare quella sua capacità di costruire mondi come sulla carta. Ricorda malinconicamente le ultime righe dell’ultima (cronologicamente) opera shakespeariana, La Tempesta, in cui un anziano protagonista, mago, si ritira «Ora i miei incantesimi sono finiti» e torna a casa come un drammaturgo-regista che ha esaurito il suo scopo. 

C’è da recuperare l’affetto perduto, attraverso la coerente e obbligata logica narrativa contemporanea dell’epicizzazione del trauma. Non compare ma è un protagonista il figlio Hamnet, che è morto bambino e dev’essere pianto. Ma a casa Shakespeare tutti quanti hanno già versato lacrime per motivi diversi, anche piuttosto implausibili, che tuttavia sono motore dell’ultima mezz’ora di film. Hamnet Shakespeare, da cui il nome dell’eroe tragico per eccellenza Hamlet, in All is True si fa specchio di Ofelia, una vittima degli eventi e della propria incapacità di reagirvi. E quindi il padre a lutto, ingannato, si rivela alter-ego anche lui di Amleto padre, un fantasma nella notte che non si dà pace. Essere o non essere? 

Non per un’era ma per tutti i tempi a venire

Nel suo complesso il film è tutto un libero omaggio-richiamo all’idea di Shakespeare più che a Shakespeare in sé, come nel momento in cui l’autore viene interpellato da un giovane ammiratore e gli risponde come il guru della Scuola Holden che il Bardo sarebbe oggi: «La verità non deve mai interferire con una bella storia». Il toccante dialogo tra Kenneth Branagh – Shakespeare e Ian McKellen – Conte di Southampton (destinatario dei Sonetti shakespeariani) mette insieme due tra i più grandi interpreti contemporanei di Shakespeare — interpreti nel senso più ampio di ermeneuti e mediatori — a commentare e quindi a rendere omaggio alle parole immortali del più grande autore della modernità. E qui è chiaro l’intento non documentaristico, non preciso, dell’operazione di Branagh, conscio dei limiti di una ricostruzione e allo stesso tempo persuaso del potere di un dramma: «Siate onesto con voi stesso e tutto ciò che scriverete sarà la verità». 

Nemmeno Shakespeare rappresentava la storia per com’era veramente, ma la riscriveva poeticamente attingendo la materia dalle cronache. Insegna Aristotele che la storia è particolare ma che la poesia la supera in quanto è universale. Lo sceneggiatore Ben Elton ha potuto trattare come un’opera di Shakespeare la vita di Shakespeare in All is True, specificamente come una tragedia (aveva già provato a sperimentarla anche come commedia nella sitcom BBC Upstart Crow), ma non avrebbe avuto senso semplicemente incollare gli scarni elementi che possediamo sulla sua esistenza. Ne sarebbe uscito un altro prodotto alla Shakespeare in Love, fingendo di autobiografizzare qualche play senile. Ma Kenneth Branagh sa anche che narrare tutto Shakespeare è impossibile e perciò mette da parte i fatti storici e mira ad una costruzione poetica e dunque universale e – soprattutto – onesta negli intenti di celebrare la grande voce dell’Occidente anche nei momenti taciuti della sua storia. Poco importa se non rispetta gli accadimenti verificati, così… tutto è vero. 

Casa Shakespeare è disponibile su Disney Plus.

Edoardo Borghesio
Edoardo Borghesio,
Redattore news.