Fra le tante serie italiane andate in onda negli ultimi vent’anni poche hanno avuto la fortuna e i meriti di Camera Café. Rifacimento dell’omonima francese, apparsa in Mediaset nel 2003 (cinque stagioni), riemersa in Rai nel 2017, la serie è ormai entrata nell’immaginario pop-culturale italiano grazie ai personaggi che la abitano: stereotipi d’ogni tipo, tutti accomunati da una sola grande passione: il caffè. È infatti davanti ad una macchinetta del caffè, in un ufficio al diciassettesimo piano, che impiegati e dirigenti hanno deciso di far fronte a drammi e vicissitudini – lavorative o personali che siano – ognuno a suo modo ma, pare, ogni volta con il medesimo epilogo, comico e morale, in linea con i destini affatto dinamici delle maschere teatrali della commedia dell’arte.

Allo spettatore che si limitasse alla lettura del copione di un qualsiasi episodio, tuttavia, il lato comico potrebbe decisamente sfuggire. All’interno della sitcom infatti troviamo, in sintetico ordine sparso: sessismo, bullismo, scatologia e conformismo, razzismo e moralismo. Atti continui di prevaricazione fisica e psicologica dei forti sui deboli, i quali a loro volta, raggiunti ruoli temporanei di maggior spessore nell’azienda, si trasformano nei peggiori carnefici senza alcuna remora. Episodi di omofobia, transfobia e body shaming; alcolismo, nonnismo e nepotismo; analfabetismo, elitismo e demagogia. E ancora, dirigenti dispotici e sindacalisti opportunisti; frodi fiscali, truffe, furti, ricatti e spilorceria, distruzione di beni privati, mogli e mariti fedifraghi, fornicazioni nei bagni e negli ascensori, paternalismi stucchevoli, molestie sessuali, bigottismo, ideologie spicciole, e perpetue e fantasiose violazioni del codice stradale.

Un’azienda degli orrori che non risparmia nessun personaggio, e che tuttavia suscita, immancabilmente, il nostro riso. Il riso è un oggetto complesso, che sfugge ad ogni definizione filosofica. Molti grandi pensatori hanno, infatti, tentato di imbrigliare la sua essenza (da Aristotele a Kant, da Freud a Bergson, Hegel, Baudelaire, Kierkegaard, Lipps…) ma senza riuscirci fino in fondo, definendo ora il Comico, ora l’Ironia, il Sarcasmo, ecc. Tra questi anche Pirandello che nel suo saggio del 1908 tenta, attraverso i modelli teorici dei predecessori, di scandagliare l’Umorismo all’interno della letteratura italiana. 

Secondo Pirandello si ha il Comico nel momento in cui subentra una rottura delle convenzioni, il sentore che il fatto a cui si sta assistendo è contrario alla regolarità: Paolo Bitta, “l’uomo chiamato contratto”, primo venditore dell’azienda, che si chiede con quante ‘c’ vada scritto il nome dell’amico Luca Nervi, oppure la sua incapacità di completare il più semplice dei proverbi (chi la fa, la fa; chi non risica, non risica…). Constatare che una persona semianalfabeta ricopra un ruolo tanto importante per il funzionamento di un’azienda produce nello spettatore un sovvertimento delle aspettative, e lo distanzia dai fatti raccontati collocandolo in una posizione di superiorità. Ci si sente migliori davanti a questi personaggi e la narrazione è strutturata in modo da rendere agevole questo processo: servendosi di iperboli, infatti, pone lo spettatore ad un livello di moralità più alto. E di fronte alle infinite e surreali gaffe che mai potremmo commettere, e compreso l’errore altrui, ridiamo. Secondo Pirandello, giunti a questo punto, si passa ad un livello di analisi ulteriore in cui l’avvertimento del contrario può trasformarsi in sentimento del contrario. È il momento in cui si empatizza con il personaggio cercando di capire perché fa quello che fa (perché Paolo è un alcolizzato, perché educa i figli in quel modo…); rinunciando così al distacco e alla superiorità proviamo un senso di pietà (quello che accade ai personaggi, in misure differenti, potrebbe capitare anche a noi) e la risata sguaiata si tramuta in un amaro sorriso: ecco l’Umorismo.

Questo secondo sguardo al fenomeno non legittima le azioni di impiegati e dirigenti, spesso deprecabili, ma ci aiuta ad accedere ad uno dei possibili significati della serie. Camera Café è uno specchio che consente, riconosciute le opportune distorsioni tipiche del linguaggio delle sitcom, di riflettere sui problemi culturali e sociali dell’Italia di oggi. Esacerbando situazioni e comportamenti quotidiani – e per questo forse sottostimati – li manifesta, allo scopo di renderli indesiderabili, e produce nello spettatore una forte reazione di denuncia della situazione sociale: è in questo una vera e propria sitcom civile.

Non esiste personaggio puro in Camera Café, nessuno è esente da colpe e difetti, né viene giustificato – per quanti problemi economici, sociali o politici possa avere. La serie è studiata come un grande catalogo di modelli sbagliati, così risibilmente sbagliati da porre immediatamente lo spettatore in una posizione di superiorità morale. Ma i problemi sottesi alle azioni dei personaggi sono concreti, comuni; questo elemento fa sì che lo spettatore metta in discussione ciò che vede, la serie gli richiede un atteggiamento critico tale da non poter più dirsi indifferente.

Molti programmi – televisivi e non – basano il loro potere attrattivo sulla proposta di modelli cui sentirsi superiori, ma al contrario di prodotti come Camera Café sono privi di quelle strutture sintattiche che permettano di mettere in discussione quello che si sta guardando: vi si ride e basta, non hanno altro scopo, e cullati da un facile guadagno morale si rimane immoti.

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Alessandro Balbinot, Redattore