All’inizio degli anni ‘70, gli Stati Uniti sono un paese attraversato da profonde tensioni. La guerra in Vietnam prosegue senza tregua, consumando energie e consensi, mentre l’onda lunga del movimento per i diritti civili comincia lentamente a rifluire. L’assassinio di Martin Luther King ha lasciato un vuoto simbolico e politico incolmabile, segnando la fine di un’epoca di speranze collettive. Le tensioni razziali continuano a ribollire, dimostrando come il conflitto interno al paese sia ancora lontano dall’essere risolto: cambia forma, si riorganizza ma resta parte integrante del tessuto sociale americano.

In questo scenario instabile, di un paese incerto e diviso, si inserisce la storia – vera – di Ron Stallworth. Primo agente afroamericano del dipartimento di polizia di Colorado Springs, Stallworth riesce a infiltrarsi nel Ku Klux Klan. Fingendosi al telefono un suprematista bianco, entra in contatto con i vertici locali e nazionali dell’organizzazione, mentre un suo collega partecipa fisicamente agli incontri. 

Spike Lee decide di mettere in scena la storia di Ron Stallworth (John David Washington)  non limitandosi a un semplice racconto di fatti storici, ma rielaborando e adattando alcuni elementi per accentuare le contraddizioni e le ipocrisie dell’America. Pur rimanendo fedele alla sostanza della vicenda, Lee spinge il film oltre i confini del racconto biografico, rendendo la storia di Stallworth un potente veicolo per riflettere non solo sulle dinamiche razziali degli anni ’70, ma anche su quelle che ancora oggi segnano profondamente la società americana.

La legittimazione dell’odio

“Andiamo! L’America non elegerebbe mai uno come David Duke presidente degli Stati Uniti!”

Come al solito, Lee gioca con i registri narrativi, facendo convivere spesso, all’interno della stessa scena, momenti di tensione e sarcasmo, senza mai perdere di vista il suo obiettivo: smascherare le ipocrisie del sistema, mostrare quanto il razzismo sia ancora radicato e quanto la retorica dell’odio si travesta, oggi come allora, da normalità.

E questa normalità è rappresentata dal personaggio di David Duke (Topher Grace), gran maestro del Ku Klux Klan e – all’epoca dei fatti –  futuro deputato della Camera dei Rappresentanti della Louisiana. A differenza dei membri più rozzi e violenti dell’organizzazione, Duke appare come un uomo misurato, attento all’immagine e capace di usare le parole. Il suo progetto è chiaro: ripulire l’immagine del suprematismo bianco, renderlo più presentabile, più digeribile per l’opinione pubblica americana. Vuole scrollarsi di dosso l’immaginario del cappuccio e della croce in fiamme, e costruire un’ideologia razzista basata su presunte argomentazioni “scientifiche” e su un lessico politico rassicurante. Un razzismo in giacca e cravatta, che non urla ma s’insinua.

Non sorprende, allora, che nel momento in cui il film entra in produzione e, soprattutto, al momento della sua uscita nel 2018, alla Casa Bianca ci sia Donald Trump. Spike Lee costruisce volutamente il personaggio di Duke come una figura ambivalente, capace di evocare non solo il suprematismo storico, ma anche quello più recente, celato dietro toni più moderati e formule pseudo-politiche. Il riferimento all’attualità è esplicito: la retorica di Duke finisce per risuonare inevitabilmente come un’eco di quella trumpiana. Un chiaro esempio di questo parallelismo si ritrova nella ripetizione da parte di Duke dello slogan “America First”, lo stesso usato da Trump durante la sua prima campagna presidenziale.

Ma non si tratta solo di uno slogan. Duke si erge come il difensore di un’America bianca, dipinta come minacciata dall’integrazione e dal multiculturalismo. La sua retorica trasforma ogni apertura verso l’alterità in una potenziale invasione, capace di erodere quella che egli definisce l’essenza della nazione. In modo simile, Trump ha costruito gran parte della sua campagna su messaggi che invocano la paura di una perdita identitaria causata dall’immigrazione, promettendo il ritorno a un’America “grande” e idealizzata. Entrambi, pur operando in contesti differenti, si affidano a un linguaggio che alimenta la nostalgia per un non si sa quale passato in particolare, offrendosi come custodi di un’identità nazionale in crisi. Ma l’eleganza di Duke non è che una facciata dietro la quale si nasconde un uomo profondamente ignorante e decisamente poco intelligente. È ingenuo, ridicolo e facilmente manipolabile. Questa sua caratterizzazione non solo evidenzia l’arroganza del personaggio, ma anche la natura intrinsecamente fragile del suprematismo bianco: esso è pericoloso proprio perché si fonda su illusioni, pregiudizi e credenze assurde che i suoi sostenitori abbracciano con devozione cieca. Un’ideologia che, lontano dall’essere un sistema razionale, si costruisce su basi di paura, odio e intolleranza.

“Ho combattuto la legge e la legge ha vinto” 

Il razzismo negli Stati Uniti è un sistema che permea ogni aspetto della società, dalle strade alle istituzioni. BlacKkKlansman non si limita a raccontarlo, ma lo mette in scena con lucidità, mostrando come la discriminazione non sia solo una questione culturale, ma qualcosa di più profondo, radicato nelle strutture di potere. L’ingresso di Ron Stallworth nella polizia di Colorado Springs lo dimostra subito: i suoi superiori lo avvertono che, in caso di insulti razzisti, dovrà sempre porgere l’altra guancia. Quello di Spike Lee è un messaggio chiaro. Il razzismo è parte integrante del sistema, che a sua volta lo accetta come parte della propria cultura, e chi ne fa parte deve tollerarlo senza discutere. Ma il razzismo istituzionale non si manifesta solo con insulti e discriminazioni, ma esplode – troppo – spesso in atti di violenza che diventano simboli di un potere esercitato con la forza bruta. 

Nella scena del fermo di Kwame Ture (Corey Hawkins) e Patrice (Laura Harrier), la violenza diventa un atto di dominio, una dimostrazione di forza che serve a ribadire chi comanda e chi, invece, deve restare al suo posto. È il riflesso di un sistema che protegge se stesso, che garantisce l’impunità a chi abusa del proprio potere.

Lo stesso Ron, nel finale, si trova a fare i conti in prima persona con questa realtà. Quando cerca di sventare un attentato viene aggredito senza esitazione da due poliziotti, che, non ascoltando le sue spiegazioni o il fatto che sia un agente sottocopertura, lo pestano brutalmente senza dargli il tempo di tirar fuori il distintivo.

Flip e Philipp

Phillip “Flip” Zimmerman (Adam Driver) è uno dei personaggi più complessi e sfaccettati di BlacKkKlansman,  detective ebreo che si infiltra nel Ku Klux Klan insieme a Ron Stallworth. Se per Ron la discriminazione razziale è una realtà quotidiana, una parte fondamentale della sua vita, Flip è un personaggio che, inizialmente, non sembra aver mai davvero preso in considerazione il peso delle sue origini. Il suo essere ebreo, infatti, non è mai stato per lui qualcosa di rilevante. Non osservante, non ha mai affrontato le difficoltà legate alla sua religione. Per lui, l’essere ebreo è solo un’etichetta, un dato biologico. Tuttavia, l’esperienza di infiltrarsi nel Klan lo costringe a confrontarsi con un aspetto della sua identità che aveva sempre ignorato. Nel frattempo momento in cui deve nascondere la sua ebraicità per non essere smascherato, Flip è costretto a fare i conti con il proprio passato, con una parte di sé che, fino a quel momento, non gli aveva mai creato problemi. Quella negazione forzata diventa il punto di rottura, un passaggio in cui l’indifferenza verso le sue radici si trasforma in una presa di coscienza. Flip non è un uomo che ha scelto consapevolmente di nascondere la sua identità; fino a quel momento, non ne ha mai avuto bisogno. La sua esperienza con il Klan, quindi, segna una presa di coscienza che va ben oltre la sopravvivenza sul campo. L’incontro con un odio così puro e così viscerale lo obbliga a confrontarsi con la sua appartenenza e a vedere, per la prima volta, l’ombra della sua identità. È solo quando la sua vita è in pericolo, quando il razzismo lo coinvolge direttamente, che Flip è costretto a riflettere su cosa significhi davvero essere ebreo in un contesto di odio assoluto.

America oggi, ieri e domani

Spike Lee, nel raccontare la storia di BlacKkKlansman, non si limita a fare un semplice resoconto storico. La sua rivisitazione del passato è un atto di denuncia, un richiamo alla memoria collettiva che dimostra come le problematiche razziali siano un male che attraversa l’intera storia americana. Ciò che vediamo nel film potrebbe accadere in qualsiasi momento della nostra storia, perché il razzismo è una costante che si rinnova e che affonda le radici nelle profondità della società americana. Il monologo di Harry Belafonte, che racconta la tragica realtà del linciaggio di Jesse Washington, un giovane afroamericano ucciso da un branco di suprematisti bianchi nel 1916, è un esempio emblematico di come la violenza e l’odio abbiano attraversato generazioni, rimanendo inalterati. Nel contesto di un’America che, anche oggi, è segnata dalla brutalità della polizia e dalle discriminazioni razziali – come nel caso di George Floyd e degli innumerevoli episodi di cronaca che ancora scuotono la nazione – Spike Lee mostra chiaramente che la lotta per la giustizia razziale è tutt’altro che conclusa. In questo senso, la colonna sonora di Terence Blanchard, storico collaboratore di Lee, amplifica questa continuità temporale. Il mix di jazz e soul, insieme all’uso di temi musicali ricorrenti, rende tangibile l’idea di un continuo ritorno del seme del razzismo, che si ripropone sotto nuove forme, ma con le stesse radici di odio.

Infine, il dolly shot finale – marchio di fabbrica del regista – rappresenta un vero e proprio viaggio nel tempo dei protagonisti. Ci riporta all’oggi attraverso le immagini della Unite the Right Rally di Charlottesville del 2017 e i discorsi moderni di David Duke, intervallati dai commenti di Donald Trump. Questo dolly shot è un atto simbolico che ci ricorda come, nonostante le apparenti conquiste sociali, l’allerta è sempre alta per il popolo afroamericano, costretto a combattere una battaglia che sembra non avere fine.

Alla base di tutto questo c’è una consapevolezza storica che Spike Lee ci invita a condividere, un invito a non distogliere lo sguardo dal passato che ancora ci parla. La storia americana, fatta di cicli di violenza e resistenza, è un tessuto intricato che intreccia la sua trama con il razzismo, una presenza costante che attraversa i secoli. Comprendere il passato non come un capitolo chiuso, ma come un cammino che continua a riscrivere se stesso, è la chiave per affrontare il presente. In un’America dove il razzismo continua a plasmare le istituzioni e a segnare la vita di ogni giorno, Spike Lee ci costringe a guardare negli occhi una realtà che non possiamo più ignorare, a fare i conti con ciò che siamo e con ciò che ancora, drammaticamente, siamo destinati a diventare.

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Simone Pagano,
Redattore.