Il 15 giugno 2023 la sesta stagione di Black Mirror è apparsa su Netflix e sono stati necessari solo pochi giorni per far nascere numerosi dibattiti. La serie tv dai toni distopici e fantascientifici, inserita di diritto tra i migliori prodotti Netflix, non ha messo d’accordo tutto il suo pubblico come erano state in grado di fare le stagioni precedenti: ne abbiamo avuti di episodi che sono diventati iconici e che al solo nominarli fanno correre un brivido lungo la schiena (come dimenticare il trauma di Zitto e balla?). Questa sesta stagione, tuttavia, ha sollevato non poche perplessità, principalmente legate al fatto che la presenza della tecnologia è meno forte rispetto a ciò che era stato fatto negli anni passati; la pericolosità del progresso tecnologico e le sue conseguenze sui rapporti umani sono tematiche centrali all’interno di molte puntate della serie come Arkangel, lo struggente Torna da me o ancora Orso Bianco.

Naturalmente la tecnologia riveste ancora un ruolo importante in questa sesta stagione, ma non si può non notare come questa venga messa maggiormente in secondo piano, in particolare in un paio di episodi. Loch Henry, seconda puntata della stagione, è uno di questi. Qui l’elemento “fantascientifico” è praticamente assente, ma la riflessione che ne scaturisce è quanto mai necessaria per l’epoca che stiamo vivendo.

Un segreto nascosto in una videocassetta

Davis e Pia, due giovani studenti di cinema, si recano nella cittadina di campagna scozzese di Loch Henry per visitare la madre vedova di Davis mentre sono di passaggio verso un altro luogo in cui devono girare un cortometraggio. La madre del ragazzo, Janet, accoglie subito il figlio e la ragazza nella propria casa mostrandosi gentile, disponibile e premurosa, tuttavia è da subito chiara l’atmosfera di disagio che si sta pian piano creando tra i tre. I piani della coppia vengono stravolti dal racconto di Stuart, amico d’infanzia di Davis, il quale informa Pia di una tragedia avvenuta nella cittadina molto tempo prima, causa dello scarsissimo turismo e del generale abbandono della zona. La storia è quella di Iain Adair, assassino responsabile della sparizione e della morte di una giovane coppia nel 1997; nel caso del killer era rimasto coinvolto anche il padre di Davis, uno dei poliziotti mandato ad arrestare Iain, suicidatosi appena prima di essere catturato dalle forze dell’ordine. La storia del serial killer è a dir poco terrificante, se aggiungiamo anche il fatto che aveva allestito nel proprio seminterrato una sorta di stanza delle torture dove rinchiudeva le vittime.

Pia rimane subito colpita dalla vicenda e propone a Davis e Stuart di realizzare un film a riguardo, proposta accettata con entusiasmo dai due ragazzi che sperano di riportare un po’ di turismo a Loch Henry. Attratti dalla possibilità di realizzare un documentario true crime di successo, i tre ragazzi si mettono subito a lavoro recandosi immediatamente nella casa di Iain, rimasta ovviamente abbandonata ma in cui riescono a entrare senza molte difficoltà. Per filmare scelgono di usare la vecchia videocamera a nastro dei genitori di Davis sovrascrivendo delle videocassette su cui Janet aveva registrato una serie tv poliziesca. Proprio grazie a questa scelta, è Pia a scoprire un segreto inconfessabile: alla fine di una delle videocassette si trovano infatti dei filmati che mostrano Iain nella sua sala delle torture insieme a entrambi i genitori di Davis, complici dei suoi crimini e responsabili anche loro della morte di otto persone. Ed è qui che la realtà colpisce i protagonisti, entusiasti di rivangare una storia del passato che nasconde ancora dettagli molto pericolosi.

Critica al “mercato” del True Crime?

Non trovate che sia divertente rilasciare un prodotto che muove una critica sprezzante al “mercato” del true crime proprio su una delle piattaforme che più vi marcia sopra? Netflix ha forse una delle raccolte di documentari true crime più vaste che si siano mai viste su una piattaforma streaming, e continua a crescere ogni anno (se non ogni mese). Loch Henry è una storia che prima di tutto mette in guardia sui rischi nel cercare di scoprire un passato scomodo per quanto affascinante. Tutto ciò che accade all’interno della nostra storia è causato dall’incapacità dei protagonisti di fermarsi davanti a un limite: non dimentichiamo che in una scena parlano addirittura di trasformare la vecchia casa di Iain in un’attrazione per turisti sul modello di una “casa degli orrori”. Un luogo dove delle persone hanno subito violenze orribili e sono state brutalmente assassinate trasformato in una specie di parco giochi? Forse una delle idee più macabre che possano mai venire in mente. Davis, Pia e Stuart scelgono di rivangare il passato a qualunque costo, cercando ogni minimo particolare che possa dare quel tocco in più alla loro storia, dimenticandosi alla fine che stanno parlando di persone reali. C’è sempre un enorme rischio nel “riportare in vita i morti”, soprattutto se si finisce con lo scoprire qualcosa di tanto terribile come il coinvolgimento dei proprio genitori in crimini tanto brutali quanto perversi. E forse l’incidente d’auto che i giovani hanno a un certo punto dell’episodio vuole proprio essere un avvertimento; è lo stesso padre di Stuart, l’unico a sapere la verità ma troppo spaventato per parlare, a tentare di distogliere l’attenzione dei ragazzi da questa storia. Ma la loro curiosità ha il sopravvento e avrà un costo troppo grande.

Esattamente come i tre ragazzi, il mercato del true crime non si ferma davanti a nulla: recentemente abbiamo avuto la controversa Serial Killer Exhibition a Milano, una mostra dedicata interamente agli assassini seriali più famosi della storia, in cui come souvenir era possibile acquistare oggetti con volti o riferimenti ai killer. Quanto può essere inquietante recarsi a casa di un amico e vedere sul tavolo della cucina una tazza con il “candido” volto di Ted Bundy stampato sopra?

O ancora, la miniserie su Jeffrey Dahmer prodotta proprio da Netflix che ha ricevuto non poche critiche per via di come sono state trattate alcune vicende o come è stato posto davanti al pubblico il personaggio del protagonista. Non è una novità sapere che esistono persone che idolatrano i serial killer più famosi, perché carismatici e allo stesso tempo inquietantemente affascinanti. Ed ecco che tutte le persone le cui vite sono state segnate per sempre o sono state brutalmente interrotte passano piano piano dietro le quinte, vengono seppellite sotto la fama dei loro carnefici e quasi nessuno ricorda i loro nomi. Alla fine di Loch Henry, Davis riceve un BAFTA per il documentario da lui prodotto su Iain Adair, eppure non sembra felice nonostante sia palese che il cinema è letteralmente la sua intera vita. Ma un premio potrà mai riportargli indietro tutto ciò che ha perso? 

Renata Capanna,
Redattrice.