Ci sono personaggi intimamente legati ai volti degli attori che li interpretano, al punto da risultare snaturati se immaginati con un aspetto diverso. Così, per quanto Jack Nicholson (prima scelta di Tim Burton al tempo del casting) avrebbe potuto rispecchiare perfettamente l’intraprendenza, la forza e la spigliatezza di Edward Bloom non siamo certi che il risultato finale sarebbe stato così iconico come quello ottenuto con Ewan McGregor, di cui si celebrano oggi i 51 anni. 

La storia di Big Fish (2003) si dispiega nel racconto della vita di un uomo, Edward Bloom, dotato di un’immaginazione fervida e viva che spesso porta suo figlio William a dubitare della veridicità dei suoi racconti. Una mancanza di fiducia che causa una crepa sempre più profonda nel loro rapporto: sarà necessario ripercorrere proprio le storie di questa vita fantastica per poterlo ricucire prima che William possa dire addio a suo padre in punto di morte. 

In particolare, il racconto che spinge il piccolo Bloom fin da ragazzo ad allontanarsi dal padre è il racconto di come, nel giorno della sua nascita, Edward fosse riuscito a catturare un grande pesce che nessuno era mai riuscito a pescare. Questa storia, insieme a molte altre, lo aveva portato a non distinguere più il vero Edward Bloom dal personaggio creato per impressionare chi ascoltava le sue storie, ritenendo, ormai in modo automatico, che qualsiasi accenno a un decorso di vita non banale non fosse altro che una fantasiosa costruzione immaginifica

Ma un’impostazione mentale del genere è proprio ciò che Big Fish cerca di sradicare, andando contro tutti i canoni logici sia del racconto che della vita, ed esaltando la figura di un uomo la cui grandezza interiore lo rende paragonabile a quello stesso enorme e sfuggente pesce.

LA METAFORA DEL PESCE GRANDE

Costante del film, il parallelismo tra il protagonista e il pesce si sdoppia nel rappresentare sia lo stesso Edward Bloom sia ciò che Bloom riesce a ottenere dalla propria vita. La prima spiegazione di questa allegoria avviene quando il protagonista racconta di un articolo sui pesci rossi che aveva letto da ragazzo, in cui si illustrava come, stando in uno spazio più ampio di una piccola boccia di vetro, anche l’animale tende ad ingrandirsi. Questo bisogno di “abbandonare la propria boccia” corrisponde in Bloom all’irrefrenabile volontà di lasciare la sua città natale per avventurarsi nell’oceano del mondo esterno e vivere esperienze al pari della sua grandezza d’animo.

Ciò che egli stesso, inoltre, paragona al pesce è sua moglie, unico vero grande amore della sua vita che Bloom riesce a conquistare dopo innumerevoli sforzi assimilabili tanto a una crescita personale quanto alla pesca della “bestia.”

Ed è certamente carico di significato uno degli ultimi momenti del film, in cui accanto al letto d’ospedale di suo padre, William compie un primo grande passo nell’accettare quella particolare concezione del mondo che aveva sempre rifiutato. Mentre Edward vive i suoi ultimi istanti di vita, suo figlio si sforza in tutti modi di ritardare il tragico momento, aggrappandosi a quello che suo padre amava di più. Così, ansimando e quasi con le lacrime agli occhi, William gli narra una storia, la storia di come sarebbero scappati entrambi dalla struttura, di come avrebbero incontrato nuovamente tutti i suoi amici e di come, quando sarebbe arrivato il momento, lui lo avrebbe restituito al fiume, dove avrebbe potuto finalmente nuotare libero, proprio come un grande pesce.

Forte, indipendente ed energico, Bloom deve seguire la sua natura fino alla fine, contrastando qualsiasi convenzione che lo vorrebbe fermo in un unico luogo, impegnato a trascorrere una monotona vita in una boccia di vetro. E nel momento in cui il suo corpo è costretto a cedere alla malattia, l’unico modo possibile per lui di andarsene è abbracciare in senso più ampio quell’idea di libertà che lo aveva sempre accompagnato.

EDWARD BLOOM: UN ARCHETIPO RESO PERSONAGGIO

Il protagonista di Big Fish è tra i migliori personaggi creati nel cinema del XXI secolo. Difficile, per le ragazze che hanno a che fare con lui, non innamorarsene e ancor di più per gli spettatori non affezionarsi. Nei suoi racconti di gioventù Edward Bloom è un ragazzo brillante, sveglio, mentalmente e fisicamente più grande della sua età; forte, determinato e coraggioso, ma soprattutto dotato di una grande bontà d’animo, nonché di gentilezza e una spiccata propensione alla socialità. Queste qualità vengono messe in dubbio dal figlio, in quanto la descrizione che Edward fa di se stesso sembra non coincidere con la persona che effettivamente è nella quotidianità familiare. Proprio per dare una risposta ai suoi dubbi William inizia a investigare sulla vita di suo padre, cercando testimonianze delle sue avventure fantastiche. Si rivolge così a Jenny, la ragazza che Edward diceva di aver conosciuto in passato. La possibilità che il protagonista possa aver tradito sua moglie e aver avuto anche una seconda vita con questa donna si fa viva più volte nella mente del figlio e degli spettatori, ma viene immancabilmente smentita: il giovane Bloom, spinto dal bisogno di smontare quella figura fin troppo perfetta per essere vera, resta sorpreso nello scoprire che, in realtà, quel tradimento non era mai stato commesso.

Tuttavia, per quanto si possa ammirare la personalità del protagonista e la sua fantastica e fantasiosa storia di vita, quest’ultima appare decisamente irrealistica, rendendo più che comprensibile il punto di vista di William. Ma, la grandezza della storia narrata porta lo spettatore ad accettare che Edward sia fatto effettivamente in questo modo, che all’interno di questo contesto una visione del mondo meravigliosa, leggendaria, quasi fiabesca possa trionfare su una realtà cinica e spenta. Come lo spettatore, anche William si ricrederà, facendo rinascere il bambino che è in lui. 

Il giovane Edward Bloom è un archetipo reso personaggio che riesce a risultare ampiamente caratterizzato pur rappresentando un ideale di perfezione, mancando della freddezza ieratica o sublime che questo ideale richiederebbe. 

Big Fish è un invito alla sensibilità, una spinta a non perdere quella scintilla interiore che permette di credere ancora a storie fantastiche. Nel modo più esplicito e colorato possibile viene spiegato il principio della narrazione: il patto di realtà. Lo spettatore deve accettare l’universo diegetico proposto dal narratore e cercare la coerenza all’interno di quel contesto ben definito. L’importanza di questo legame tra creatore e fruitore è sottolineata dal finale, che oltre ad essere estremamente commovente rappresenta un sottile stratagemma retorico autoriflessivo. Per tutta la durata del film ci muoviamo su due piani, quello del racconto di gioventù (proposto come vero da Edward e come falso da suo figlio) e quello della realtà (la vicenda di William e la malattia del padre), due piani che restano ben separati fino a quando William rimane convinto delle sue idee. Ma nel momento in cui accetta finalmente ciò che suo padre gli suggeriva come vero, i due piani si sovrappongono, i personaggi della “vita fantastica” finalmente appaiono, e quella narrazione che William aveva sempre rifiutato si fa ora estremamente vera e tangibile. Riesce a vederli, a credere che esistano e a lasciarsi coinvolgere. Accetta gli eventi più romanzeschi proprio come uno spettatore che sceglie di mettere da parte dubbi e critiche, abbracciando la straordinarietà di una storia in cui riesce finalmente a immedesimarsi.  

Questo articolo è stato scritto da:

Gaia Fanelli, Redattrice