Il Cinema è Politica: Il sessantotto e i Cahiers du Cinéma

Sin dalle origini il Cinema possiede una natura fortemente popolare che nel corso del Novecento lo ha portato a divenire il medium moderno per eccellenza in grado di raccontare la società e i suoi malesseri esteriori e interiori. In ambito teorico ci si confronta spesso con il binomio finzione/realtà, tralasciando invece l’essenza fortemente politica della Settima Arte. Il Cinema, infatti, è politico non solo perché portatore di specifici messaggi ideologici, ma in quanto prodotto della realtà e dei meccanismi sociali in cui viene concepito e diffuso. Se nel corso della seconda guerra mondiale il mezzo cinematografico è stato principalmente impiegato dai regimi autoritari e dagli Stati Uniti per operazioni di propaganda in nome di quell’estetizzazione della politica di cui parla Walter Benjamin, nell’immediato dopo guerra e successivamente con le agitazioni studentesche del ’68 ha portato avanti una contestazione attiva della società attraverso la critica teorica, lo sperimentalismo, la diffusione di idee e l’abbattimento di stereotipi sessuali e di genere.  In questo senso si parla di politicizzazione dell’arte cinematografica. E’ nei primi anni Sessanta che in Francia inizia a diffondersi un nuovo modo di guardare al Cinema, portato in auge da una generazione di autori e critici, La Nouvelle Vague, riuniti all’interno dei Cahiers du Cinéma.  Questa rivista divenne il cuore della Nuova Onda francese e pose le basi della critica cinematografica, che per la prima volta ha attribuito e riconosciuto al regista quel merito creativo che si era visto negato dagli Studios americani. Per i critici dei Cahiers come Godard e Truffaut, il regista è considerato l’autore del proprio film. Si inizia, dunque, a parlare di politica degli autori, un concetto che nasce nel 1955 a seguito di un articolo di Truffaut dal titolo “Alì Babà e la politica degli autori” che è ispirato alla concezione della Camerá-Stylo di Alexandre Astruc, il quale riteneva che la cinepresa, così come la penna per lo scrittore, fosse uno strumento d’espressione artistica e personale.  Profondamente influenzato da questo modo innovativo di fare ed essere Cinema, il panorama emergente italiano di quegli anni iniziò ad accogliere in sé tali idee.  Tra i tanti giovani registi portatori di tale visione, Bernardo Bertolucci è forse quello che maggiormente si è fatto emblema internazionale di un Cinema in grado di coniugare riflessione sulla Settima Arte e impegno politico e sociale. Rispetto a Godard e alla lezione della Nouvelle Vague egli scrive: 

“E Godard, che girava due o tre film all’anno, era l’autore che ci rappresentava meglio, con la sua severità un po’ calvinista e la sua capacità di tenere il mondo e quel che scorreva intorno nell’incavo delle sue mani”. 

Prima e durante il ’68: Prima della Rivoluzione e The Dreamers

«Chi non ha vissuto negli anni prima della Rivoluzione non può capire che cosa sia la dolcezza del vivere»

Come rivela il giovane Bernardo Bertolucci in un’intervista con Mario Soldati, il Cinema è sempre Politico poiché è cinema di classe ed espressione della classe egemone. Negli anni Sessanta e Settanta il pubblico italiano, afferma il regista, è condizionato da cinquant’anni di cinema borghese, al contrario di quello dei paesi socialisti che è, invece, influenzato da lunghi periodi di cinema popolare, il quale va di pari passo con un cinema fortemente rivoluzionario. Quest’ultimo, infatti, incarna l’essenza della poetica cinematografica di Bertolucci: un cinema universale, sperimentale, oggettivo e autoriale che indaga le contraddizioni, le aspirazioni e i conflitti all’interno delle classi sociali, ma anche il mondo stesso nella sua ambiguità e complessità. E’ un Cinema che si presenta da un lato come una riflessione sulla Storia, sulla psiche umana e sulla soggettività, dall’altro come un viaggio attraverso l’immaginario simbolico-pittorico, sociale e cinematografico della penisola, ma soprattutto dell’Europa stessa. Come afferma lo storico e critico Paolo Bertetto: 

il suo percorso creativo si può riassumere come un passaggio dal cinema come scrittura al cinema come figurazione, dalla narrazione della soggettività alla configurazione visiva del mondo, dalla Caméra-Stylo al grande disegno spettacolare”. 

Tralasciando la sconfinata produzione documentaria di Bertolucci, l’elemento politico è centrale in tutti i suoi lungometraggi tra i quali principalmente Il Conformista (1970), Ultimo Tango a Parigi (1972), Novecento (1976), L’ultimo imperatore (1987) e persino Il tè nel deserto (1990). In particolare, però, Prima della Rivoluzione (1964) e The Dreamers (2003) sono un affresco degli anni Sessanta rivoluzionari, di quella gioventù a cui Bertolucci sentiva di appartenere e a cui desiderava dare voce. Il primo film è un urlo generazionale, un romanzo di formazione nonché un tributo allo sperimentalismo tecnico della Nouvelle Vague francese.

La vicenda di Prima della Rivoluzione si colloca nella provincia di Parma dei primi anni Sessanta e si svolge in un periodo di agitazione politica e sociale che anticipa i fermenti della rivoluzione del Sessantotto. La pellicola ha come protagonista un giovane uomo di nome Fabrizio, interpretato da Francesco Barilli. Egli incarna la dualità presente in molti intellettuali di sinistra, divisi tra impegno politico, desiderio radicale di cambiamento, conflitti amorosi e le aspettative della vita quotidiana borghese. Nonostante i dubbi, l’insoddisfazione e gli interrogativi sul modo in cui militantismo di sinistra e vita personale possano intersecarsi, Fabrizio sceglie di rinunciare ad ogni velleità rivoluzionaria e di rassegnarsi ad accettare le convenzioni borghesi. 

The Dreamers riprende le tematiche di Prima della Rivoluzione inserendole nel contesto del maggio francese. Anche questa pellicola può essere considerata un’opera di formazione poiché la narrazione è improntata verso la ricerca di un’identità da parte dei giovani protagonisti, facenti parte di quella gioventù ribelle, borghese, cinefila, politicizzata ma spesso incoerente. The Dreamers è, inoltre, un grande tributo al cinema francese come si evince dalla scena grottesca ed erotica dell’“indovina il film”, ma ancor più dalla corsa tra i corridoi del museo del Louvre che tanto rimanda a Bande à Part (1964) di Godard e a Jules et Jim (1962) di François Truffaut. Gli occhi sognanti di Theo, Matthew e Isabelle puntati sullo schermo cinematografico di una piccola sala autogestita parigina sono gli stessi di quella generazione sessantottina che nelle strade e nei cinema aveva portato la rivoluzione e che rivedeva sé stessa nei protagonisti della Nouvelle Vague. Per tale ragione, The Dreamers è un’opera estremamente personale che Bertolucci descrive come un “flashback fisiologico” e non immaginario. Nonostante i personaggi e i fatti narrati siano partoriti dalla mente di Bertolucci, la realtà sociale in cui essi sono inseriti è profondamente autentica, vicina al regista e alla sua generazione.  

Ultimo Tango a Parigi: un appartamento per non-essere   

Paul: Noi ci incontriamo senza sapere niente di quello che siamo fuori di qui, d’accordo?
Jeanne: Ma perché?
Paul: Be’, perché… perché non abbiamo bisogno di nomi qui dentro. Capisci? Dimenticheremo tutto ciò che sappiamo, tutto. Cose, persone, gli altri, tutto ciò che siamo stati, gli amici, la casa, dobbiamo dimenticare ogni cosa, ogni cosa.

Alla capitale parigina è dedicato anche uno dei maggiori pilastri della sua carriera, Ultimo tango a Parigi (1972). Se The Dreamers è l’inizio di un’epoca, Ultimo tango a Parigi rappresenta invece la fine della stessa. Bertolucci impiega, infatti, i due protagonisti del controverso film per attuare un confronto tra passato e presente, il primo è incarnato dal divo Marlon Brando, mentre il secondo dalla giovanissima Maria Schneider. La pellicola è ambientata negli anni Settanta in un quartiere borghese sotto il grigio cielo di una Parigi decisamente malinconica. La vicenda del film si svolge all’interno di un appartamento vuoto in cui i due protagonisti, Jeanne e Paul, si sono casualmente incontrati, entrambi motivati dal desiderio di affittarlo. Questo ambiente claustrofobico diventerà il loro rifugio dall’esterno, dalla vita ordinaria e opprimente della metropoli e dalla Storia che fagocita i suoi figli. Non v’è passato né futuro che possano penetrare all’interno di quelle mura così come nessun nome o identità. I protagonisti si promettono di essere solo un uomo e una donna, disposti a fondersi con istintiva e feroce animalità: Eros Lei e Thanatos Lui. Non vi sono rivolte universitarie nella pellicola, ma corpi nudi che si incastrano e fanno la lotta: uno d’uomo ruvido, sadico e distruttivo, l’altro femminile che combatte per riappropriarsi della propria carne e della propria immagine, vittima da secoli degli sguardi maschili feticizzanti. Nell’ostinata decisione di non conoscersi, entrambi sperimentano fino all’estremo attraverso la carnalità, arrivando ad analizzarsi nell’intimità del non-essere.  Al di fuori dell’appartamento, tuttavia, la vita di Paul e Jeanne continua a scorrere spietata ed ipocrita trascinandoli verso l’inevitabile e tragico finale che determinerà la sconfitta della loro utopia esistenziale. 

Il personaggio di Tom (Jean Pierre Lèaud), il fidanzato regista di Jeanne, intento a dirigere un film su di lei, è un chiaro riferimento a quel Cinema Veritè che, attraverso l’essenza stessa del mezzo cinematografico, si prediligeva di intrecciare realtà a calco della stessa in una dialettica di verità e menzogna filmata. Attraverso tale espediente meta-cinematografico ci riappropriamo di quelle identità di cui i due personaggi ci hanno sottratto la conoscenza. Le loro vicende personali riaffiorano di tanto in tanto come un segnale di sconfitta esistenziale o di un passato fantasmatico con il quale non si può non fare i conti.  Questo film è un testamento straordinario della poetica di Bertolucci: un Cinema inteso come Politica, poesia, sguardo pensante e pensato, impegno militante, libera rivoluzione personale e collettiva nonché progetto in continuo divenire. Come afferma Bertolucci in una delle sue ultime interviste: 

per un lungo periodo sono stato così preso dalla mia passione per il cinema che quasi non facevo differenza tra la realtà e il cinema: spesso, quando si fa un film, si attinge dalla vita reale, mentre io iniziai a farlo dal cinema stesso, facendomi influenzare da una realtà che era già stata trasposta in pellicola”

Alla stregua di Pasolini e Jean Luc Godard, Bertolucci ha trasformato lo schermo cinematografico in un campo di battaglia dove le vicende personali e autobiografiche si intrecciano inestricabilmente con la storia del Cinema e con il contesto politico a lui contemporaneo.

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Benedetta Lucidi,
Redattrice.