Non ci stanchiamo mai dei Beatles. A distanza di cinquant’anni continuano ad affascinare registi e sceneggiatori che ripropongono, ciascuno a modo suo, l’epica dei Fab Four da angolazioni ogni volta diverse. Ben quattro differenti biopic sono nella mente di Sam Mendes, incentrati sul punto di vista di ciascuno dei quattro membri della band. I documentari non si contano: Martin Scorsese con il suo ritratto di George Harrison, Ron Howard con Eight days a week, Peter Jackson con Get Back.

Ma il rapporto coi Beatles con il Cinema non si esaurisce nei ritratti realizzati a posteriori o nei documentari. Nel corso della sua carriera, il gruppo di Liverpool si è cimentato in prima persona nel Cinema, di fronte alla macchina da presa di progetti che ne esaltassero le qualità canore e aggiungessero pagine al loro mito di massa. Non certo una novità: lo stesso re del rock and roll, Elvis Presley, aveva già prestato il suo fascino a più di una ventina di film. Ma la – discontinua – esperienza dei Beatles col cinema appare qualcosa di più del veicolo promozionale che pure è. Sincretica e intessuta dello stesso anarchico sense of humor che caratterizzava le loro canzoni, sempre sul solco dell’auto-promozione ma, allo stesso tempo, sensibile agli umori del tempo e permeato di quella cultura che, nei primi anni Sessanta, cominciava a fiorire e di cui i Beatles stessi si fanno portavoce. Nel corso della loro carriera, i Beatles partecipano, nel ruolo di sé stessi (o, più spesso, in versioni esagerate e autoironiche di sé stessi) in quattro film; e non sarebbe poi una forzatura individuare, in ciascuno di essi, uno specifico capitolo che rispecchia la parallela evoluzione della loro musica nel corso del decennio.

A Hard Day’s Night – Giovani ribelli inglesi

La Beatlemania era già esplosa da un anno o due. La british invasion avrebbe raggiunto in pochissimo tempo le sponde oltre l’Atlantico, e i Fab Four stringono un impegno con la United Artists per la realizzazione di tre film – naturalmente accessori alla promozione di altrettanti album del gruppo. Al primo di questi, A Hard Day’s Night, viene chiamato dietro la macchina da presa Richard Lester, regista apprezzato da John Lennon per i suoi cortometraggi con Peter Sellers – e con il quale girerà anche la commedia bellica Come ho vinto la guerra nel 1967; sarà anche in cabina di regia per Superman II, subentrando a Richard Donner -.

Protagonisti di questo successo commerciale e nominato a due Premi Oscar (Miglior sceneggiatura e Miglior colonna sonora) ci sono ovviamente loro, i Beatles, impegnati nella registrazione di un evento televisivo, nell’arco di poco più di una giornata, ostacolato da numerosi intoppi. Tra tutti, l’antagonismo tra John Lennon e il manager Norm e lo “sporcaccione” zio di Paul McCartney. 

A Hard day’s night è una sfacciata celebrazione glam della fama dei giovani idoli delle folle. Belli, spiritosi, simpatici, amati da schiere di fan, vincenti, lontanissimi dall’immagine dei giovani proletari arrabbiati che caratterizzava il movimento verista da kitchen sink realism che si era affermato in Regno Unito dagli anni Cinquanta, ma non per questo meno ribelli e meno insofferenti dell’autorità. La gioventù che i Beatles rappresentano è una gioventù ribelle, la generazione di un Regno Unito postbellico in cerca di ricostruzione che respira la cultura e il senso di euforia che cominciavano allora ad esplodere nei colori degli swinging sixties. Ritratto naturalmente utopistico, ma anche sorprendentemente autoironico – e talvolta sarcastico -, A hard day’s night viene ricordato per la sua influenza nel genere musicale, e non solo al cinema.

Help! – Avventura globale

Di segno totalmente opposto è la seconda collaborazione con Richard Lester. Se A hard day’s night non si allontana troppo dal realismo patinato, nel 1965 Help! cambia rotta e spinge i Fab Four in un’avventura in giro per il mondo in un mortale gioco del gatto con il topo, inseguiti da un mortale culto di fanatici religiosi. Grazie al successo commerciale del precedente film, l’avventura globetrotting porterà i Beatles dai quartieri residenziali di Londra alle alpi austriache alle Bahamas – sempre provvisti dei loro strumenti nonostante il pericolo mortale che corrono – nel tentativo di salvare Ringo da un sacrificio alla dea Kalì.

Prendendo spunto da La guerra lampo dei fratelli Marx e dai film della saga di James Bond – il cui tema di Henry Mancini viene tra l’altro reso oggetto di una parodia neppure troppo velata -, le riprese di Help! sono state colpite dai numerosi altri impegni del gruppo e la stanchezza che ne deriva. Le canzoni appaiono spesso scollegate dal loro contesto, l’umorismo pende decisamente più per il farsesco, con un deciso gusto per il surreale – il siero che rimpicciolisce Paul McCartney alle dimensioni di una formica, raggi laser che rallentano il tempo, sparatorie, inseguimenti, improbabili salvataggi ex machina –, frequenti rotture della quarta parete e didascalie beffarde. Nonostante risulti in un film a vignette meno quadrato di A hard day’s night, e che si poggia quasi esclusivamente sulla presenza buffa di Ringo Starr, denota il medesimo gusto per l’intrattenimento anarchico e senza freni. Nonostante ciò, i Beatles non saranno mai realmente soddisfatti del risultato, e al terzo film per la United Artists – di cui si parlerà poco più in giù – daranno un apporto minimale.

Magical Mystery Tour – Sperimentazione on the road

Magical Mystery Tour rappresenta il primo – e unico – esperimento in cui i Beatles, oltre che di fronte alla macchina da presa, si cimentano come autori e registi. Film televisivo spinto principalmente da Paul McCartney e Ringo Starr, anche accreditato come direttore della fotografia – John Lennon contribuisce con la narrazione fuori campo e l’idea per una sequenza, George Harrison con una canzone e uno sdegnoso distacco dal progetto –, il mediometraggio venne realizzato nell’arco di due settimane che produssero numerose ore di girato, ridotte a cinquantadue minuti trasmesse il 26 dicembre 1967 sul canale BBC1.

Le vignette sconnesse si snodano tra le tappe dell’omonimo tour, tra situazioni grottesche, personaggi sopra le righe e frequenti viaggi nell’onirico. Lo “script”, formato dal disegno di un cerchio, venne arricchito quotidianamente da suggerimenti, giochi di parole e spunti aggiunti al momento – tra cui un sogno di John Lennon ricreato per il film. Ma il tour è solo un pretesto per legare assieme i momenti musicali delle canzoni che confluiranno nell’album omonimo – tra cui uno realizzato riciclando una sequenza a volo d’uccello usata per Il dottor Stranamore -. Vanity project di grande insuccesso di critica, più collezione di videoclip che Cinema; ma, ancora una volta, ideale termometro per la direzione musicale lisergica intrapresa dalla band già da qualche anno. Nonché, forse, specchio dell’inizio della crisi per la band, già funestata da frequenti contrasti interni che andranno sempre più intensificandosi negli anni.

Yellow Submarine – Piccolo catalogo dell’animazione

Tra tutti i film dei Beatles, quello di maggior successo fu quello in cui i Beatles hanno partecipato di meno. Disinteressati al progetto a seguito dei mediocri risultati di Help! e in procinto di partire per il viaggio spirituale in India che cambierà la vita di uno di loro, per lo sviluppo di Yellow Submarine i Beatles hanno fornito quattro canzoni inedite e ripreso la scena in live-action in chiusura del film, e lasciato a doppiatori professionisti il compito di prestare voce ai Beatles animati. Il loro quarto film è un musical d’animazione che segue il viaggio del sottomarino giallo alla volta di Pepperland, utopia subacquea minacciata dall’invasione dei malvagi Biechi Blu – in originale blue meanies, slang dispregiativo per indicare i poliziotti, ma anche nome comune usato per una varietà di funghi allucinogeni -. La regia viene affidata a George Dunning, che già aveva lavorato per la serie animata sui Beatles realizzata per un pubblico infantile e trasmessa dal 1965 al 1967.

Sotto la direzione artistica di Heinz Edelmann (illustratore e designer ceco di cui questo è l’unico contributo al cinema), Yellow Submarine abbraccia l’impiego delle tecniche di animazione più disparate, con l’unica eccezione dello stop-motion. Se in gran parte l’animazione è tradizionale, sebbene con uno stile volutamente lontanissimo dallo standard mainstream, in particolare disneyano, qua e là fanno breccia frequenti inserti in cut-out – sagome ritagliate e animate – e una sequenza, quella di Lucy in the sky with diamonds, realizzata in rotoscope. Nonostante un budget esiguo, regista e animatori sono d’accordo sulla necessità di allargare gli orizzonti visivi del pubblico, e offrire uno spettacolo in sintonia con l’aria psichedelica e l’umorismo scanzonato – e colmo di giochi di parole – della musica dei Beatles. Innovativo spettacolo visivo che Robert Zemeckis cercherà di replicare in un tentativo – naufragato – di remake in motion capture, John Lasseter indicherà Yellow Submarine come l’inizio di un nuovo interesse “adulto” per il cinema d’animazione. Ma soprattutto è la sintesi perfetta di quest’ultima fase della produzione dei Beatles, segnata dalla loro progressiva rottura che avverrà definitivamente nel 1970, nonché espressione della spinta alla sperimentazione che è il tratto distintivo dell’intero viaggio dei Beatles, in musica come occasionalmente al cinema.

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Valentino Feltrin,
Redattore.