Cosa accadrebbe se si mescolassero La Pantera Rosa, James Bond e la spessa silhouette di Diabolik? E se a questi aggiungessimo: uno humor crudo e grottesco ai limiti del dicibile, personaggi imprevedibili e alieni al concetto di mortalità, sparatorie impossibili degne di un noir anni Quaranta, e a questo mescolassimo pirati spaziali, irascibili membri della yakuza, controspionaggio internazionale, doppio gioco nel doppio gioco, presunti scienziati pazzi clonati da Hitler, macchine assassine alla Terminator, predisposizione alla follia, alla demenza, all’uso di sostanze psicotrope nonché alla megalomania? A questo punto otterreste qualcosa di molto simile alla serie Archer, ma vi mancherebbero ancora un complesso d’Edipo irrisolto e una condivisa nevrosi di tutti i personaggi con tendenza all’isteria.
Sterling Malory Archer (nome in codice: duchessa), è la più grande spia in circolazione. Lavora per un’agenzia di spionaggio newyorkese, l’ISIS (International Secret Intelligence Service), capitanata dalla madre Malory Archer con la quale condivide un rapporto morboso e l’adesione ad uno stile di vita approssimabile a quello di un alcolista d’alto bordo. Insieme a una nutrita schiera di personaggi surreali, prima fra tutte l’agente Lana Kane (amante, ex amante, amata e odiata), Archer viene incaricato delle più perigliose missioni e spedito in ogni luogo, dove, nonostante le numerose difficoltà (più interne che esterne), riesce quasi sempre nel proprio obiettivo.
Il più grande nemico di Archer è infatti sé stesso. Un individuo dall’ego smisurato dedito al solo piacere personale al punto da compromettere immancabilmente ogni missione cui prende parte. Certo, in questo è aiutato dall’incompetenza e dagli screzi con il personale dell’ISIS che dirigono la missione da dietro le scrivanie, come Cyril Figgis (impacciato contabile alla Silvano Rogi) nonché contendente amoroso invaghitosi di Lana. Le prime stagioni hanno infatti la struttura di una commedia d’ufficio con escursioni sulla realtà esterna a scopo di parodia dello spy movie alla 007. Ma mentre in Fleming Bond abbandona, già a partire dal primo romanzo Casinò Royal, ogni tentativo di autoanalisi dei propri principi morali trasformandosi nel modello di agente segreto dall’impareggiabile savoir-faire mai pervaso da dubbio amletico profondo, in Archer ogni puntata ribadisce i dissidi interiori del suo protagonista, le sue incapacità relazionali dovute a una scarsa empatia, frutto di un’infanzia solitaria scarsamente sorvegliata da una presenza materna poco amorevole. Il tutto ovviamente è restituito allo spettatore sotto forma di gag ricorsive esilaranti, motivo per cui i problemi individuali dei personaggi sono essenzialmente, per quanto riguarda almeno le prime stagioni, senza soluzione di continuità. Tuttavia, sono sapientemente complicati, man mano, da una scrittura che riesce sempre ad innovarsi e a non scadere in un’infruttuosa ripetitività.
Ma la caratteristica che forse più avvicina Archer all’universo di James Bond, e che ne fa per questo la più compiuta parodia, è il senso totale di abbandono delle preoccupazioni che investe lo spettatore. Ma mentre in 007 a questo espediente contribuivano i fantasiosi gadgets di Q, e le imprese impossibili compiute da un singolo agente contro decine e decine di nemici, in Archer le cose vengono ulteriormente complicate. Non solo irreale è ogni vittoria del singolo contro l’esercito nemico, non solo le armi e gli spazi sono assurdamente complicati sfociando talvolta nella pura fantascienza (lo stile delle tecnologie nella serie è rétro ma queste assolvono funzioni prettamente ipermoderne). Il picco massimo di antirealismo è infatti raggiunto dai dialoghi fra i personaggi immersi in situazioni di imminente pericolo. Tutti gli screzi e le rivalità personali continuano noncuranti sotto le incalcolabili miriadi di colpi sparati dai nemici: le conversazioni e gli sterili battibecchi vengono protratte all’inverosimile, spezzate e riassemblate, aggiunte a rancori mai del tutto sepolti che travolgono ora questo ora quel personaggio trasformando ogni operazione sotto copertura tra le fila del KGB in un interminabile divorzio all’italiana.
L’arroganza di Archer è il propellente che innesca la maggior parte delle disavventure nella serie, ne è il punto nevralgico da cui si diramano tutte le sottotrame. Ma non basta, come pervasi dallo spirito dell’eccesso che contraddistingue i monumentali romanzi di Victor Hugo – nei quali liste di nomi di personaggi storici semisconosciuti riempivano filate decine e decine di pagine –, Adam Reed, ideatore della serie, e i suoi sceneggiatori spingono il grottesco oltre il limite. L’ego incontenibile di Archer trascende lo Spazio – viaggiando dai quattro angoli dal globo alle profondità marine, dallo spazio infinito fino al limitato e misterioso interno dell’anatomia umana –, e il Tempo: il coma del protagonista è infatti l’occasione per tre stagioni antologiche in cui i personaggi vagano tra le strade di una sordida Los Angeles alla fine degli anni Quaranta, in un noir destrutturato che non manca di impiegare il tipico bianco e nero (seppur solo in occorrenza dei flashback) – Archer Dreamland –; ricercano un antico idolo in un’ isola remota del Pacifico nel 1939, mescolando Indiana Jones a un serial televisivo prodotto da Hanna-Barbera – Archer: Danger Island –; fino ad esplorare lontane galassie in Archer 1999 esibendo immancabilmente riferimenti a film cardine della fantascienza, da Alien a Star Trek.
Dal rapporto sensuale uomo-donna che si instaurava nei film di Bond – rapporto che spesso si rivelava corrotto con l’amante smascherata per spia nemica–, al carattere hard boiled del protagonista fino alle atmosfere dello spy movie contemporaneo è nato Archer, canto del cigno di una lunghissima tradizione tanto cinematografica quanto letteraria di cui non ha timore di ridere.
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