Vuoi per quell’atmosfera a tratti fantastica, vuoi per il maggior lasso di tempo trascorso in famiglia davanti alla televisione, o forse per quel desiderio comune di liberare il fanciullino presente in ognuno di noi e mai del tutto sopito, ma i cartoni animati sono una presenza costante nella vita di molti nel periodo natalizio.
E se il Natale è spesso sinonimo di calore e tradizione, anche qui il primo pensiero va alla Disney. Non si può certo ignorare la bellezza e l’importanza di alcune Silly Symphonies degli anni 30 come Santa’s Workshop e The Night Before Christmas, titoli che magari non diranno molto al nostro lettore ma che senza dubbio rievocano alla mente immagini familiari, e che hanno avuto un ruolo fondamentale nel delineare la figura di Babbo Natale nell’immaginario collettivo. La tradizione Disney natalizia arriva fino ai giorni nostri, utilizzando in numerosi special televisivi i personaggi più amati: Topolino, Paperino, Winnie the Pooh, i protagonisti de La Bella e la Bestia e Frozen, Phineas e Ferb, ecc…
Ma è con il Canto di Natale di Topolino (Mickey’s Christmas Carol, Burny Mattinson, 1983) che abbiamo la miglior opera animata ambientata durante le festività natalizie, tratta dal racconto di Charles Dickens del 1843, uno dei più adattati nel corso della storia con risultati spesso grandiosi. Richard Williams vinse un Oscar con il suo corto omonimo del 1971. Festa in Casa Muppet, poi, è probabilmente il film più riuscito con i fantastici pupazzi creati da Jim Henson, mentre i Looney Tunes sono stati resuscitati nel 2006 con il delizioso Bah, Humduck! A Looney Tunes Christmas , ma nessuna delle trasposizioni della storia del vecchio Ebenezer Scrooge ha raggiunto la perfezione stilistica in meno di 30 minuti del capolavoro Disney.
Nemmeno Robert Zemeckis che, con A Christmas Carol del 2009, suo secondo tentativo natalizio in motion capture 5 anni dopo Polar Express, spinge l’acceleratore verso l’uncanny valley effect.
Abbiamo poi avuto storie originali meravigliose come il burtoniano Nightmare Before Christmas, diretto da Henry Selick nel 1993, o abominevoli come il volgarissimo Otto Notti di Follie (Eight Crazy Nights, Seth Kearseley, 2002), in cui Adam Sandler prova a fare un film sull’Hanukkah; senza contare che qualsiasi personaggio animato di successo ha avuto uno special natalizio dedicato, dai Peanuts a Shrek, dai Simpson ai protagonisti di Kung Fu Panda.
Ma in mezzo a tutta questa opulenza natalizia made in USA sorprende davvero trovare un piccolo gioiello sull’altra sponda del Pacifico. Nel 2003 Satoshi Kon dona al mondo Tokyo Godfathers, una storia natalizia amara, a tratti inquietante, ma piena di cuore e autentico spirito natalizio, nonostante sia generalmente considerato l’anello più debole della purtroppo breve filmografia dell’animatore giapponese, che solitamente trova il suo genere di riferimento nel thriller.
Nella notte di Natale una bambina in fasce viene trovata in uno sporco vicolo di Tokyo da un trio di senzatetto: Gin, ubriacone dal passato controverso che ha perso la sua famiglia da tempo; Miyuki, una ragazza adolescente scappata di casa; e Miss Hana, un travestito dal cuore d’oro che vede nella bimba, da lei ribattezzata Kiyoko, un’occasione per donare a qualcuno quell’amore che lei stessa non ha mai ricevuto nella sua infanzia. Ovviamente la loro condizione non è l’ideale per prendersi cura di una neonata e questo li porterà ad una ricerca dei genitori della bambina partendo da pochi indizi, per passare attraverso una serie di incontri con altri attori della vita di Tokyo, con momenti talvolta surreali e ironici, talvolta tragici e colmi di violenza, dove a ogni gesto di bontà corrisponde, magari dalla stessa persona, una crudeltà immane.
Il sacrificio in un certo senso è uno dei temi principali del film. Ognuno dei nostri tre eroi dovrà essere pronto a sacrificare varie parti di sé: il desiderio di maternità, il proprio orgoglio, il senso di colpa, la paura di affrontare il proprio passato. Sì, perché nessuno dei personaggi del film è innocente, tantomeno i tre protagonisti.
Chi vive la vita del vagabondo qui non lo fa per sfortuna o agenti esterni: Gin, Miyuki e Hana sono per strada per propria scelta. Hanno costruito, e distrutto, la propria vita con le loro mani. L’orgoglio, la vergogna, il senso di colpa sono emozioni più o meno giustificate, talvolta messe davvero in ridicolo da Kon. L’altruismo e l’egoismo qui diventano maschere reciproche: i tre si aiutano l’un l’altro, aiutano la bambina e per riflesso la sua famiglia, aiutano tutti coloro in cui si imbattono, anche quando questi non meriterebbe nulla. Tutti modi diversi di aiutare se stessi, di interrompere parabole autodistruttive, anche se magari non sono capaci di farlo. Questo vale forse più per Gin e Miyuki che per Hana, che a conti fatti non ha davvero nulla di serio da scontare col suo passato. Gin e Miyuki hanno bisogno di essere perdonati dalle persone a cui hanno fatto del male, anche se non lo ammettono. Hana annuncia di voler aiutare la bambina anche per riscuotere il proprio credito con la vita, perdonando simbolicamente chi l’ha abbandonata alla nascita. Ma ciò ha anche un risvolto egoistico, caricando la piccola Kiyoko di questa responsabilità immensa che per fortuna non è in grado di comprendere. E per fortuna “Dio ama veramente molto questa bambina”, come ripete sempre Hana.
E quel Dio, spesso protagonista assente negli special natalizi animati, qui viene nominato senza timore da un regista senza dubbio distante culturalmente dalle basi cristiane. La religione c’è, i personaggi pregano, anche dopo aver preso in giro chi prega, magari senza nemmeno crederci davvero ma quando una persona si trova nella fredda solitudine della strada, si aggrappa ad ogni ciocco di legno necessario per scaldarsi. E nella disperazione è facilissimo soccombere, innescando una catena di sofferenze anche per gli altri, se nulla e nessuno vi pone un freno.
Tokyo Godfathers ci vuole dire che questo freno esiste, in forme e aspetti diversi da quelli che ci aspettiamo. Ma per accettare questo aiuto spesso il sacrificio del proprio orgoglio è vitale
A dircelo in maniera così limpida è un uomo, Satoshi Kon, morto a soli 58 anni a causa di un tumore fulminante, che alla nobile arte dell’animazione ha donato ogni suo residuo di energie, e che avrebbe avuto ancora molto da insegnare: persino nella sua opera minore è riuscito a mostrarci il vero spirito di una festa tanto lontana da sé.
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