Era già folta, e in più di un caso memorabile, la galleria degli antieroi romantici, temprati, malmostosi e non riconciliati, venati di fragile e malinconico maledettismo, incarnati da Mickey Rourke quando nella seconda metà degli anni ’80, all’apice della celebrità raggiunta da uomo della strada con alle spalle un passato tribolato, sull’onda del sensazionalismo pruriginoso scaturito da una pietra miliare dello zeitgeist dell’epoca come 9 settimane e ½ (9½ Weeks, 1986) di Adrian Lyne, l’attore nativo di Schenectady-NY (poi fattosi le ossa e un nome da battaglia nelle palestre pugilistiche di Miami) sceglie di arruolarsi come sconvolto protagonista del turbinoso, sensuale, visionario ed esotico neo-noir Angel Heart – Ascensore per l’inferno (1987) dell’inglese Alan Parker.

Un crudo, allucinato e poco imitato esperimento a tinte dark – suggestivamente riuscito, al netto di un enigma narrativo piuttosto trasparente – di convulsa ibridazione dell’hard-boiled thriller e della detection story di matrice classica con granguignoleschi toni orrorifici e un torrido erotismo soprannaturale di vistoso gusto moderno. Oscura e malata materia investigativa di onirico sfilacciamento interiore, straniante, incandescente e appiccicosa come vischiosa magia nera che si raggruma sul cuore sventrato di un’individualità efferatamente scissa e dilaniata, riversata nel (ri)circolo tortuoso (le onnipresenti pale di un aeratore come oggetto-correlativo del moto circolare del film), tra i segnali ambigui di una narrazione frantumata, ammaliante e impalpabile, che sorveglia e pedina gli allarmi sensoriali, i vuoti di memoria, i lampi di (falsi?) ricordi e le irrazionali eruzioni di coscienza di un anti-soggetto progressivamente svuotato e inebetito. Disgraziatamente abbandonato in un torbido labirinto di dispersione del senso – differito e negato – e di sensi ottusi e sviliti. In un angoscioso e disorganico disallineamento debordante di indizi, eventi e prospettive vanamente impegnato in un’assurda, perturbante, fallace e incomprensibile ricostruzione dell’identità, del quale Christopher Nolan – grande fan del film – farà più tradi tesoro nell’allestire il rapsodico puzzle narrativo del suo Memento (2000).

Prima della radicale emarginazione di Harry Angel, per Mickey Rourke c’era già stato l’auto-esilio volontario, ai margini di una solitudine ascetica dagli echi quasi metafisici, in un auratico bianco e nero, dell’irriducibile “Motorcycle Boy” di Rusty il selvaggio (Rumble Fish, 1983) di Francis Ford Coppola: presenza ancillare quasi mitica ma destinata all’evanescenza, dolente e carismatica figura di spiritual guidance generazionale e padrino degli sbandati, in sella su due ruote ma fatalmente già (de)caduto a bordo strada, come un santo protettore laico idolatrato eppure sconfitto (in partenza), ribelle silenzioso in religioso distacco, senza più una causa che raccolga voti di fede da tramandare ai più giovani. Era poi stato il turno, nel brulicante barocchismo del fosco sottobosco criminale raccolto da Michael Cimino nel caos rutilante di L’anno del dragone (Year of the Dragon, 1985), dell’intemerato e ossessivo sbirro Stanley White, pluridecorato innanzitutto di ferite aperte e cicatrici represse: ruvido, truce, scorretto e sentimentalmente vulnerabile, audace e avventato fino all’autolesionismo, groviglio di nervi fuori controllo, insulti al veleno e rabbia ipercinetica, per nascondere un vuoto abissale e un languore esistenziali irreparabili. Inevitabilmente solo perché scottato irrimediabilmente dalla vita, alla quale può restituire senso e valore solo in una febbrile caccia all’uomo che sublima l’esecuzione terminale della giustizia (privata) in una dispersa, spasmodica e lancinante ricerca del sé. “I saw myself in you”, confessa in un sussurro John/Mickey Rourke a Elizabeth/Kim Basinger in 9 settimane e mezzo: la sofferta ricerca dell’identità, della propria più intima, autentica e scomoda natura, cozzando contro un’alterità di speculare incomunicabilità in cui ci si scopre riflessi, è il grande fil rouge espressivo dell’originale quanto accidentata filmografia di Mickey Rourke.

È però soltanto nel momento in cui sceglie di calarsi – brutalmente incosciente, a peso morto ed equilibrio precario – nell’inquietante, allucinato e sulfureo vortice sensoriale degli spasmi diabolici di Harold Angel, che Mickey Rourke abbraccia, per la prima volta con tanta poderosa e temeraria forza demolitrice, il paradigma di interpretazione franta, spolpata e disfatta a cui oggi viene naturale associarlo. In una personalissima poetica del corpo fieramente anacronistico, ammaccato e resistente, lontana da ogni superficiale esibizione di machismo muscolare, da cui forse non è esclusa la tentazione impulsiva di cucirsi puntualmente addosso una spossante e spirituale passione cristologica da sopravvissuto martire moderno, più volte decaduto e risorto (è nota la solida fede da cristiano praticante del nostro, calatosi peraltro nel saio minimalista del santo Francesco (1989) di Liliana Cavani in devota osservanza di una spoliazione iconica ed estetica del materialismo hollywoodiano). Un corpo e un volto, quelli di Rourke, nel tempo sempre più ostesi come stimmate permanenti di un riscatto dalla sconfitta e dall’oblio, come schietto e sincero attestato di residua riconoscibilità (“I know who I am”, urla Harry al momento topico di Angel Heart) oltre lividi, tonfi e duri manrovesci di una vita incorreggibile che ha più volte (letteralmente) cambiato faccia, sfregiando lo sguardo originario con l’automutilazione (il clinico face off  ricostituente l’aspetto abnorme del freak Johnny il bello (1989) di Walter Hill fa da preveggente specchio rovesciato del suo volto che Rourke andrà rovinosamente a tumefarsi nel ritorno sul ring).

Un paradigma, dunque, che proprio a partire da Angel Heart Rourke inizierà ad indossare come una seconda pelle – con modulazioni ed esiti sempre più radicali, dall’autobiografismo sfiancante della vita sul ring di Homeboy (1988) all’auto-parodia pacchiana di Orchidea selvaggia (1989) -, sempre più calzante al suo talento indisciplinato, a un’indole ferocemente libera (e felice) di autodistruggersi per necessità, per salvaguardare la propria essenza e natura di raro animale (da palcoscenico) in estinzione. Attributi comunque impossibili da conformare alla quieta, bolsa e innocua normalità stereotipata che – oggi come ieri – innalza ai soffici piani alti dello star system e ai platinati ruoli da Oscar (statuetta che peraltro gli fu ignominiosamente scippata per l’immenso ruolo di The Wrestler (2008) di Aronofsky, agli Academy Awards del 2009, da uno scolastico e scialbissimo Sean Penn).

Per Mickey Rourke, Angel Heart rappresenta così una provvidenziale via di fuga dal serio rischio di vedersi ridotto a levigato manichino da perpetua sfilata sul red carpet del decennio edonista. L’impervio, sconquassato ma ideale setting per un solista esistenziale tormentato, intransigente e recalcitrante alle rigide regole dell’industria qual è, (anti)divo controvoglia e per costrizione che qui finalmente gode a sprofondare nel baratro di un’immedesimazione lercia, immorale e pericolosa per il suo pubblico (a confronto delle turpitudini di Harry Angel, i giochini di 9 settimane e mezzo sono quelli di un floscio Mr. Gray d’antan da rivista rosa), a danzare sgomento e compiaciuto sull’orlo della scioccante messa in crisi – e della messa in abisso – della sua (in quel momento) limpida, seducente, appena un po’ pepata immagine attoriale, mandandola categoricamente in frantumi tra visioni insostenibili e frattaglie imbrattate di sangue.

Dannarsi (letteralmente) l’anima, fondersi in un oscuro tutt’uno con le sinistre intenzioni maligne e il lacerante tormento dualistico del detective Angel, diventa quindi per Rourke l’occasione di fare le prime prove di un macabro, dirompente e ghignante attentato a se stesso – o meglio al sé che gli è stato imposto dagli altri -, alla propria celebrata e addomesticata immagine pop di sexy-giocattolone soft-core. Un consapevole e spudorato autosabotaggio che negli anni si perfezionerà ulteriormente, diventando irreversibilmente definitivo (con il parziale ritiro dalle scene e il ritorno all’amata boxe all’inizio degli anni ’90, in un lungo silenzio artistico lastricato di filmetti e comparsate alimentari, e riscattato solo con la clamorosa rinascita da protagonista in The Wrestler).

Il film come perfetto non-luogo fisico e mentale in cui rintracciare ed esorcizzare demoni e fantasmi di autocoscienza critica, il cuore battente e rivelatore di sentimenti insospettabili, la malcelata invulnerabilità, il disagio pressante e il disincanto istintivo di un dissidente come Mickey Rourke, il quale arriva alle vette più ambite di Hollywood solo per allontanarsene schifato e deluso, rifiutando in serie copioni extralusso (tra gli altri Platoon, Top Gun, Gli Intoccabili, Rain Man) per trasferirsi più che volentieri negli angoli bui e spigolosi, e nei panni lisi e sformati di un barcollante reduce da orrori bellici e tremori metropolitani come lo scalcinato Harry Angel, sfumacchiando pulciose sigarette nella penombra di un lurido ufficio da schizofrenico private eye al confine tra mondo classico e moderno, anche nella congiuntura temporale. Siamo infatti nella fredda New York del 1955, in cui Harry viene incaricato dal misterioso Louis Cyphre (Robert De Niro) di rintracciare lo scomparso crooner Johnny Favorite, dando il là alla vertiginosa spirale di eventi che arriveranno a precipitare certezze e sicurezze del protagonista.

Mickey ridiscende però a suo modo i gironi infernali, si scotta ma subito rifugge dal fuoco della grande fornace luciferina della macchina cinema che, agendo un po’ allo stesso modo del mefistofelico Cyphre con Johnny Favorite, prima concede al suo favorito onori e glorie imperiture, e poi lo soffoca e lo imprigiona succhiandogli via l’anima, condannando il nostro a ripetere per l’eternità il ruolo dell’amabile ribelle ammansito e impomatato, pronto per stampigliarsi sulla rilucente cover di Vogue America. Mickey non ci sta, si sottrae, oppone resistenza come può. Si va a barricare testardamente nell’anarchia virulenta e nelle piogge di sangue di questo cult immarcescibile (non riusciranno più a prenderlo, e lui proseguirà imperterrito nella diserzione dalle platee di massa, appoggiandosi al bancone abbruttito e gonfio d’alcool come compagno di squallide sbronze bukowskiane in Barfy – Moscone da bar, 1987). Accetta la sfida di scivolare senza rete di sicurezza in una dimensione costitutivamente improntata allo smarrimento, all’errore e alla perdita (di memoria); al brusco, distorto e spiazzante slittamento di tratti distintivi, gesti, icone, oggetti e significati dall’ordinaria e rassicurante percezione del già visto: un volto di superficie (visiva) imbellettato e preconfezionato che inesorabilmente si insudicia e si corrompe a contatto con la sostanza abrasiva, ipnotica e intossicante di insospettabili tenebre e raccapriccianti pulsioni interiori.

La faccia d’angelo pulita – per un’anima già torva dentro – del John di 9 1/2 weeks, dai lineamenti gommosi e armoniosi, dal sorrisetto sornione, timido e complice, appena velata di un seducente filo di barba e ordinatissimi capelli laccati freschi di hair styling, come sotto il getto improvviso di un acido repellente si squaglia nella trasandatezza scomposta, untuosa e sconsiderata di Harry Angel, aprendo a una serie di nevrosi ticchettanti e dolori psicosomatizzati che affondano la doppia natura dell’attore-personaggio nel delirio psicologico e nel disfacimento corporale, portandolo a sguazzare nel lurido e nel marcio, in una folle morale imputridita che arriva persino a lambire la perversione sanguinolenta dell’incesto – in una torrida e materica scena di sesso selvaggio, grondante cascate di sangue dai soffitti, perfettamente speculare al furioso amplesso sulla scale e sotto la spessa pioggia di 9 settimane e mezzo. “I know who I am, I know who I am!”, urla più volte Harry Angel in preda alla disperazione finale, messo di fronte alla verità, ricomposta solo un attimo prima di bruciare per sempre all’inferno. È ancora e sempre Mickey Rourke che grida al mondo la sua appartenenza a se stesso, custode unico della sua preziosa e singolare identità, con il merito e l’orgoglio di non aver mai svenduto l’anima ai diavoli di Hollywood.

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Daniele Badella,
Redattore.