“Un uomo è libero nel momento in cui desidera esserlo.”

Voltaire 

The Shawshank Redemption (in italiano Le ali della libertà) è, senza dubbio, uno dei film più famosi e apprezzati degli ultimi 30 anni. Il successo di critica e pubblico ottenuto dal lungometraggio d’esordio del regista Frank Darabont, infatti, è talmente straordinario che è impossibile non spendere la parola “capolavoro” quando si tratta di questa pellicola, una vera e propria perla incastonata nella lunga collana di opere che hanno scritto la storia del cinema

Oltre alla sceneggiatura praticamente perfetta, alla regia impeccabile e alla messa in scena tanto semplice, quanto efficace, ciò che rende questo film unico e indimenticabile è la forza del messaggio veicolato tramite i personaggi, scritti in maniera magistrale, così come magistrali sono le interpretazioni di Tim Robbins e Morgan Freeman.

Il viaggio che Andy Dufresne compie, infatti, è un percorso metaforico fatto di morte e di rinascita: nel momento in cui il protagonista mette piede a Shawshank inizia per lui una vita  nuova e altra rispetto a quella vissuta fino a quel giorno. In questo senso le primissime esperienze vissute dai nuovi detenuti hanno un fortissimo legame simbolico con il concetto di nascita. I prigionieri vengono spogliati e successivamente lavati, richiamando in qualche modo una sorta di battesimo, un rito che dà inizio a una nuova vita e permette al battezzato di entrare in una nuova comunità, davanti alla quale viene fatto camminare nudo, come appena uscito dal grembo materno, fino alla sua cella.

In un contesto come questo, il vero nemico che il protagonista deve fronteggiare è la prigione stessa. Shawshank, infatti, è una presenza costante, opprimente e quasi personificata durante tutta la durata della pellicola: il carcere spinge ogni personaggio fino al punto di rottura attraverso la crudeltà e la violenza, oppure attraverso il lento logoramento della monotonia, con l’obiettivo di imporre oltre a una prigionia fisica, una prigionia mentale.

Il personaggio di Andy, in questo senso, è estremamente interessante, in quanto egli risulta essere l’unico detenuto a resistere a questo fortissimo processo di “istituzionalizzazione”. Se tutti gli altri carcerati, infatti, si arrendono in modo più o meno consapevole e si adattano alla vita in quel microcosmo distaccato dalla realtà che è Shawshank, Dufresne riesce a mantenere un barlume di umanità e di speranza attraverso il ricordo del mondo esterno. È emblematica, quindi, la scena in cui Andy e i suoi compagni si ritrovano a bere una birra sul tetto del carcere: per distruggere le catene che imprigionano in primis la mente, è fondamentale continuare a credere nella bellezza e nella normalità della vita. Anche un semplicissimo gesto quotidiano come bere una birra al sole o ascoltare della musica, quindi, diventa un potentissimo gesto di liberazione e di ribellione contro l’oppressione che Andy e gli altri detenuti sono costretti a subire ogni giorno.

Un altro aspetto centrale nel mantenimento di questa idea di pseudo-normalità è, sicuramente, la ricerca di uno scopo. Il personaggio di Dufresne, infatti, cerca costantemente di darsi un obiettivo, un compito da svolgere, un qualcosa che dia significato al tempo e alla vita, che altrimenti si trasformerebbe in mera sopravvivenza animale in un contesto come quello di Shawshank. 

In questo senso la creazione della biblioteca, le lezioni di lettura impartite al giovane detenuto e lo stesso piano di fuga di Andy, non fanno altro che alimentare il fuoco della speranza che continua a bruciare nel protagonista e gli impedisce di abbandonarsi alla rassegnazione, come accade invece per gli altri detenuti. 

Il personaggio di Brooks e in parte anche quello di Red, infatti, rappresentano metaforicamente l’alter ego di Dufresne: uomini che considerano, ormai, la speranza come qualcosa di negativo e di pericoloso, uomini che si sono abituati alle mura della prigione e che le hanno interiorizzate a tal punto da temere la realtà al di fuori di esse, uomini ai quali Shawshank ha imposto una nuova vita e per i quali riavere indietro quella che è stata loro tolta è impossibile . 

Tutta la vera forza della resistenza di Andy, però, viene sapientemente celata allo spettatore fino alla fine della pellicola e nel momento in cui il protagonista sembra aver ceduto, sembra essere finalmente stato sconfitto dal sistema, avviene l’impensabile: Dufresne riesce a scappare da Shawshank. La fuga dal carcere è, senza dubbio, una delle sequenze più iconiche e metaforicamente più potenti dell’intera storia del cinema.  

Il personaggio di Tim Robbins, infatti, buca letteralmente le mura della sua cella, si cala nelle viscere della terra, striscia lungo un cunicolo fatto di sporcizia e oscurità per uscire finalmente da un inferno che lo ha tenuto prigioniero per 19 lunghissimi anni e, simbolicamente appena rinato, si offre nudo a una pioggia torrenziale purificatrice, richiamando ancora una volta un metaforico battesimo che gli offre di nuovo la vita, lavandolo via dalla sua anima tutto ciò che è stato a Shawshank.

La parabola di Andy Dufresne, in conclusione, si afferma come un percorso estremamente universale, che mette in scena quelli che sono i più grandi e viscerali bisogni dell’esistenza, ovvero la ricerca della libertà e la necessità di mantenere viva la fiamma della speranza, perché senza queste due forze la vita umana non sarebbe davvero del tutto umana e forse non sarebbe nemmeno degna di essere vissuta.

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Alessandro Catana, Redattore