Con l’uscita nelle sale cinematografiche de Il ragazzo e l’airone – qui la nostra recensione – il maestro dell’animazione giapponese Hayao Miyazaki è tornato sulla cresta dell’onda: in Italia, durante la prima giornata di proiezioni, ha incassato circa 837 mila euro e registrato quasi 110 mila presenze. Complice l’attesa decennale dopo lo struggente Si alza il vento (2013); complice l’assenza di una vera e propria campagna pubblicitaria – da poster a trailer ufficiali – nonché le continue posticipazioni di data: qualunque sia la causa, sta di fatto che Miyazaki è stato, e continua a essere, un autore in stato di grazia nel panorama cinematografico mondiale.
Oltre all’intrinseco valore artistico delle sue opere, che continuano a essere realizzate “alla vecchia maniera”, l’animatore di punta dello Studio Ghibli – divenuto tale dopo la dipartita dello storico collega e amico Isao Takahata – si è contraddistinto nel panorama produttivo mondiale per la sua attenzione verso alcuni temi che risultano essere ricorrenti nei suoi lungometraggi animati. Dall’infanzia alla figura femminile, dalla guerra al pacifismo per passare alla bellezza mortifera della tecnologia, alla crescita individuale, alle tradizioni nipponiche, all’amore, allo scontro tra bene e male: questi sono solo alcune delle tematiche di cui la produzione di Miyazaki è intrisa.
Oltre a queste, l’ambientalismo e il rapporto problematico fra umanità ed ecosistemi naturali sono questioni ricorrenti sin dal lungometraggio Nausicaä della Valle del vento (1984), film che abbiamo già avuto occasione di analizzare dal punto di vista dell’ecologia in questo articolo. A completamento di quanto già scritto in tal sede, proseguiamo l’analisi di quei film presenti nell’opera di Miyazaki che affrontano – a volte più esplicitamente, a volte meno – l’ecologia e l’ambientalismo.
Eco-utopie letterarie: Laputa – Castello nel cielo (1986)
A due anni dal successo di Nausicaä, con Laputa – Castello nel cielo (1986) Miyazaki torna a trattare i temi salienti del film precedente, quali l’antimilitarismo, i sentimenti umani e non-umani, la sete di potere e, in particolare, l’ambientalismo; non casualmente molti ambienti, dal punto di vista del design, sono un chiaro rimando ad alcuni luoghi in cui si sviluppano le vicende di Nausicaä. La piccola Sheeta, in fuga da un manipolo di pirati dell’aria, cade, dall’aeronave su cui stava viaggiando, sulla Terra, protetta da un’aura gravitazionale generata dal ciondolo che reca al collo. Sheeta incontra casualmente il giovane Pazu, orfano e operaio di miniera, il quale l’accompagnerà alla ricerca di Laputa, leggendaria città-castello volante che viaggia nel cielo da centinaia di anni, e dalla quale Sheeta proviene.
Oltre alle mirabolanti avventure che i protagonisti vivono nei limpidi cieli, sono le scene ambientate a Laputa a destare maggior meraviglia – e a stimolare una serie di riflessioni sull’ambientalismo. Giunti sull’isola, la città fortificata risulta completamente abbandonata, se non fosse per degli animali che vivono allo stato brado e un robot, un tempo macchina da guerra, ora vero e proprio giardiniere di quell’Eden senza esseri umani. La natura si è riappropriata dei suoi spazi: l’erba cresce rigogliosa sulla cinta muraria e sulle abitazioni abbandonate, le chiome verdi degli alberi s’innalzano verso il cielo e una moltitudine di fiori colora i sentieri: Laputa è una eco-utopia (o ecotopia) che sopravvive senza l’essere umano, che si è rigenerata e perdura – forse – proprio in virtù dell’assenza degli uomini. L’equilibrio ritrovato viene posto in predicato quando Pazu e Sheeta atterrano sui prati di Laputa: nonostante i loro buoni sentimenti, quando la loro macchina volante “antropica” si adagia sul terreno essa rischia di annientare un piccolo nido d’uccelli, salvato in extremis dal robot-giardiniere che prontamente accorre a salvare le creature. Laputa assume dunque l’identità di isola dell’abbandono (termine che prendiamo in prestito dal romanzo di Cal Flyn Islands of Abandonment. Nature Rebounding in the Post-Human Landscape, 2021), di ecosistema post-umano in cui luoghi come palazzi e abitazioni di pietra vengono risemantizzati dalla natura. Pur restando una eco-utopia, in Laputa – Castello nel cielo Miyazaki sottolinea con vigore la sua attenzione verso l’ecologia attraverso un mondo, quello della città-fortezza volante, che pare “lo step successivo” rispetto all’universo in cui agisce la principessa ecologista Nausicaä: un mondo in cui la natura si è ripresa, a tempo indeterminato, i propri spazi.
La tranquilla, silenziosa, buona terra coltivata: Il mio vicino Totoro (1988)
Con Il mio vicino Totoro (1988), film dal successo mondiale, Hayao Miyazaki non solo disegna quella che sarà l’icona dello Studio Ghibli, ma ritorna, idealmente, al “suo” mondo. Nonostante la narrazione sia intrisa di quella componente magica che sarà ricorrente nella sua produzione, il teatro delle vicende che vedono coinvolte se sorelline Satsuki e Mei è la campagna: la piccola famiglia abbandona il fermento della grande città per scegliere una sorta di indefinito “prima” (Valeria Arnaldi, Hayao Miyazaki: un mondo incantato, 2014); prima della televisione, prima dei grattacieli, prima dell’età adulta, esiste ancora un mondo incantato in cui esseri umani e creature fantastiche possono convivere.
Oltre alla moltitudine di letture e interpretazioni che sono state avanzate nel corso degli anni, Totoro è una storia di ritorno alla “buona terra coltivata”, alle tradizioni nipponiche, alle abitazioni costruite vicino alle foreste. Da questa prospettiva, è possibile trovare un punto di contatto con Pioggia di ricordi (1991) di Isao Takahata: la ventisettenne Taeko desidera “staccare la spina” da Tokyo e così viaggia verso la campagna per trascorrere un periodo ospite della famiglia del fratello del cognato e per svolgere, in compagnia, una serie di lavori agricoli. Questa “volontà” di far ritorno alla terra – ma anche il tema dell’infanzia e della famiglia – accomuna le due opere realizzate a pochi anni di distanza nel contesto produttivo della neonata Studio Ghibli. Seppur sviluppate su corde differenti, è interessante notare come entrambe esplicitino il chiaro sentimento di contrasto verso il primato della metropoli, oramai divenuta anonima e febbricitante: la campagna, seppur modificata dalle azioni antropiche, può ricondurre gli esseri umani sulla strada dei valori che, nell’inarrestabile corsa del progresso, parevano perduti.
Princess Mononoke (1997): la natura inviolabile
È opinione condivisa pensare a Princess Mononoke (1997) come il film ambientalista per eccellenza di Miyazaki. Sin dalle premesse, la riflessione sul rapporto fra umanità e natura s’insinua nel racconto: al fine di salvare il proprio villaggio, il principe-guerriero Ashitaka uccide un demone cinghiale, il quale lo ferisce e lo maledice a una morte lenta e colma di sofferenze. Abbandonata la sua gente, Ashitaka si mette in viaggio per scoprire la natura del demone e del suo assassino, venendo a contatto con la Città di Ferro di Lady Eboshi, fucina ove si producono armi e pallottole contrastata da San, la Principessa Mononoke, fanciulla abbandonata dalla foresta e cresciuta dai lupi.
In questo lungometraggio, Miyazaki esplora il conflitto fra industrializzazione e natura, fra la Civiltà che distrugge e il Mistero – di matrice animista – che alimenta la foresta e gli ecosistemi: la violenza che caratterizza il film – specialmente le scene di battaglia – si concretizza in quelle pallottole che fanno ammalare uomini, demoni e divinità. Solo il sacrificio del Dio della Foresta – che non può più dimenticare la sua trasformazione di Dio della Morte – può riportare l’equilibrio nella valle. Princess Mononoke riflette sulla sete di sopraffazione dell’umanità che conduce la stessa ad alimentare una lotta furente contro la Natura: San, che funge da punto di contatto fra esseri umani e non-umani, è anch’essa animata da una furia cieca che si esplicita nella sua perenne lotta contro la sua stessa specie. L’equilibrio, che in Laputa veniva raggiunto con l’assenza dell’umano, si riconquista con l’utopia di costruire non una “Città di Ferro”, bensì un luogo che possa essere in armonia con gli ecosistemi naturali e gli spiriti che li abitano.
Note di ambientalismo ne La città incantata (2001) e in Ponyo sulla scogliera (2008)
Fra i temi elaborati nel film La città incantata (2001), l’ecologia e la salvaguardia degli ecosistemi naturali sono tematiche che vengono accarezzate da Miyazaki e con le quali la protagonista Chihiro si deve confrontare per poter crescere. In una scena ambientata presso le Terme degli Spettri, il primo cliente di Chihiro, sottomessa al potere di Yubaba, è lo Spirito del Cattivo Odore. La protagonista, seppur inesperta, è l’unica capace di apprendere la vera condizione dello Spirito: in seno a un’approfondita opera di pulizia, Chihiro scopre, incastrato nel corpo della creatura, quello che sembra il manubrio di una bicicletta; tirando con forza, aiutata e incitata da tutti gli spettri e dagli inservienti, una catena di rifiuti viene estratta dal corpo di quello che si rivela essere lo Spirito del Fiume. Involontariamente, Chihiro si fregia del titolo di paladina ecologica, di colei che riesce a scorgere, sotto una montagna di rifiuti, il Fiume andato perduto: anche il mago Haku è, in realtà, un Fiume, un flusso d’acqua che un tempo aveva salvato Chihiro da morte certa e che a lungo aveva dimenticato la sua natura, in quanto vittima dell’urbanizzazione selvaggia.
Per ultimo non è possibile non citare Ponyo sulla scogliera (2008), favola sull’autodeterminazione e sulla capacità dei genitori di lasciar crescere autonomamente i propri figli. Ambientando la storia di Ponyo – creatura mezza umana e mezza pesce – e di Sosuke sulla costa, Miyazaki coglie l’occasione per denunciare l’inquinamento dell’oceano e la pesca a strascico che danneggiano gli ecosistemi marini. Lo stesso padre di Ponyo, una versione marina e maschile di San-Mononoke, ha rifiutato la vita sulla Terra, consapevole del male che gli esseri umani fanno alla Natura, e ha scelto di rifugiarsi nelle profondità marine. Tuttavia – cogliendo forse quel monito alla vita di cui è pregno Il ragazzo e l’airone (2023) – Ponyo sceglie da sé “come vivere”: nonostante la sua natura, la giovane protagonista non si adatta al mondo prefabbricato e apparentemente sicuro costruitole dal padre, e sceglie la vita sulla Terra, pur consapevole di tutte le difficoltà che accorrono alla vita di essere umano. La sua autodeterminazione trascende ogni limite imposto dalla sua specie e abbraccia la vita “imperfetta” degli esseri umani.
Scrivi un commento