Sir Alfred Joseph Hitchcock, nato a Londra il 13 agosto 1899, è ad oggi considerato fra i più grandi cineasti mai esistiti. Il suo desiderio di lavorare nel cinema iniziò a vedere la luce all’età di 18 anni, quando, frequentando l’università di ingegneria, si accorse che il disegno e la fotografia erano le sue materie preferite. Si rese dunque disponibile come titolista per una compagnia teatrale statunitense, iniziando un vero e proprio ‘apprendistato americano’. Già allora si accorse di come il suo futuro sarebbe stato negli USA e non in Inghilterra, tuttavia non era attratto da Hollywood come luogo; quello che voleva era entrare e lavorare nei teatri di posa.

La sua fama a livello mondiale arrivò solo a metà anni ’50, dopo ben 30 anni dall’inizio della sua carriera, ovvero quando produsse e animò la serie di trasmissioni televisive Sospetto e Alfred Hitchcock presenta; nonostante avesse conquistato il pubblico piuttosto facilmente, non fu affatto semplice fare lo stesso con il mondo della critica: Truffaut racconta che, alla presentazione newyorkese di Jules e Jim (1962), i giornalisti gli ponevano tutti la stessa domanda: “Perchè i Cahiers du cinéma prendono sul serio Hitchcock? I suoi film non hanno sostanza”.

Lo conosciamo tutti come “Maestro del brivido e della suspense”, ma come si costruisce concretamente la suspense hitchcockiana? La sua realizzazione ha infatti un metodo ben preciso: si parte da una straordinaria coincidenza di intrecci che fornisce la situazione forte iniziale. Solo dopo si nutre il dramma con nodi sempre più stretti per suggerire il massimo dell’intensità, prima di scioglierlo velocemente dopo il raggiungimento del massimo parossismo. La tensione non deve mai calare e non devono esserci momenti privilegiati rispetto ad altri. I suoi film sono “senza buchi né macchie”; non per niente la sua massima era “creare e preservare l’emozione al fine di mantenere la tensione”.

  • IL PENSIONANTE (1927)

La carriera dell’Hitchcock-regista iniziò nel 1922 a soli 23 anni, con il lungometraggio Numero tredici (incompiuto).

Era ancora il periodo del muto e le fascinazioni che portarono il regista londinese a osservare i film più da vicino e scrivere sceneggiature furono tre:

– il cinema di David Wark Griffith (Nascita di una Nazione, Intolerance);

– la possibilità di salvare pessimi film grazie all’essenza intrinseca del cinema muto: il dialogo di una scena sarebbe apparso solo alla fine di questa scritto su cartoncino, perciò si poteva far dire al personaggio qualsiasi cosa e trasformare anche un dramma in una commedia satirica;

– i film americani (piuttosto che quelli inglesi; nello specifico per via della loro fotografia superiore): gli americani si sforzavano sempre di separare l’immagine dallo sfondo con le luci messe dietro i primi piani, mentre nei film britannici i personaggi facevano tutt’uno con lo sfondo senza alcuno stacco o rilievo.

Il regista stesso definisce come “suo primo vero film” Il pensionante (1927). Sin da subito si dovette confrontare col più grande problema di quegli anni: lo star-system; il suo desiderio era lasciare in sospeso l’innocenza del protagonista (la star Ivor Novello), ma un divo non poteva recitare la parte di un delinquente, bisognava esplicitamente dichiararne l’innocenza.

Il pensionante è il primo film in cui mise in pratica ciò che aveva appreso durante i primi lavori in Germania e per la prima volta si approcciò a un film istintivamente, applicando il suo vero stile:

– si lascia spazio a grandi invenzioni visive, fra tutte l’installazione del soffitto di vetro attraverso il quale vedere spesso l’uomo muoversi al piano di sopra (non essendoci il sonoro era l’unico modo per simulare e far vedere i passi);

– il film soddisfa nel pubblico il desiderio da una parte di assistere alla rappresentazione di avvenimenti oscuri e dall’altra di identificarsi con un personaggio di vita quotidiana;

– il soggetto dei film hitchcockiani di qui in poi sarà sempre l’uomo qualunque che si trova a vivere avventure straordinarie (per non dimenticare il primissimo cameo di Hitchcock, diventato una vera ossessione per i suoi spettatori).

  • IL SONORO: VINCI PER ME (1927), RICATTO (1929)

Il secondo vero film di Hitchcock fu Vinci per me! (1927), dove si divertì a sperimentare nuovi montaggi e innovazioni visive che diventeranno prassi comune.

Un chiaro esempio è la sequenza dove, per mostrare la carriera di un pugile, il maestro del brivido decide di mostrare prima il nome scritto in basso su un manifesto pubblicitario affisso per la strada; capiamo poi che siamo in estate dal fatto che il suo nome è stampato con caratteri più grandi passando in alto sul manifesto; poi arriva l’autunno e via di seguito. Per ogni stagione venivano utilizzati alberi differenti, prima verdi, poi in fiore e via dicendo.

Arriviamo all’epoca del sonoro: sebbene l’introduzione dell’acustica sia stata un grande sollievo per molti registi, così non fu per Hitchcock. Il maestro della suspense affermò più volte come il cinema muto fosse molto più puro. Negli ultimi anni i cineasti e le produzioni avevano – a sua detta – raggiunto quella perfezione poi scomparsa con l’avvento del sonoro per lasciare spazio alla mediocrità; ovvero, il cinema si trasformò in “fotografie di gente che parla”. Non si dovrebbe mai ricorrere alle parole se non quando è impossibile fare altrimenti. Bisogna sempre sforzarsi di raccontare una storia per mezzo della successione delle inquadrature e delle sequenze. Per Hitchcock, il cinema si irrigidì in una forma teatrale, perdendo molto in tecnica e fantasia.

Il primo film sonoro del regista londinese fu Ricatto (1929), riguardo al quale, nel libro-intervista di Truffaut Il cinema secondo Hitchcock, compie una digressione importante: non troverete mai nella sua filmografia una pellicola tratta da un capolavoro della letteratura (al massimo romanzi popolari creativi). Questo perché sono opere altrui che non vuole modificare; se una storia che aveva letto gli interessava particolarmente allora faceva sua l’idea di base ma dimenticava il libro. Per Hitchcock c’è una distanza siderale fra letteratura e cinema, ed è sempre meglio tenerli ben distinti. In un qualsiasi romanzo le migliaia di parole hanno funzioni ben precise, su pellicola per esprimere la stessa cosa bisogna sostituirle con il linguaggio della macchina da presa (in sostanza – afferma scherzosamente il regista – servirebbero film di sei o dieci ore). Inoltre, la suspense letteraria è nettamente differente a quella cinematografica: i tempi devono essere talvolta contratti e talvolta dilatati in base alla situazione.

  • L’UOMO CHE SAPEVA TROPPO (1934)

Lezione Hitchcockiana che il pubblico d’oggi ancora non ha imparato: “suspense” non equivale a “sorpresa”. La maggior parte degli spettatori è ancora convinta che ci sia suspense quando si prova un sentimento di paura, ma in realtà si tratta della “dilatazione di un’attesa”; e il pubblico deve essere preventivamente informato dal regista rispetto all’oggetto dell’attesa e agli elementi in gioco. Senza non ci potrà mai essere suspense.

In ogni modo: arrivano gli anni ’30 e la critica considera Hitchcock già finito, tant’è che Rich and strange (1931) e Number 17 (1932) sono dei veri insuccessi. Tuttavia, il regista londinese non si arrende e sfrutta questo periodo buio per prendere ancor più coscienza di sé, seguendo il suo mantra-guida: “Se il concetto alla base della vicenda è buono, sicuramente qualcosa salterà fuori. Bisogna pensare a porre una solida struttura di cemento prima di imbarcarsi nell’avvio della costruzione”.

E’ probabilmente grazie a questo esame di coscienza che arriva a girare L’uomo che sapeva troppo (1934), il suo più grande successo inglese, che riscuote enorme fortuna anche in America. Il finale del film è ispirato all’assedio di Sidney Street, episodio storico in cui l’esercito di Churchill si impegnò a far uscire degli anarchici russi dalla casa in cui si erano rifugiati e da cui sparavano incessantemente, mentre lo stesso Primo Ministro si recò sul luogo per sorvegliare l’operazione; riferimento storico che portò al regista non pochi problemi con la censura, in quanto a detta di quest’ultima rappresentava una macchia nella storia della polizia britannica.

Da sottolineare la presenza di Peter Lorre – probabilmente, assieme alla regia di Hitchcock, il miglior elemento del film – reduce dal capolavoro M – Il mostro di Düsseldorf di appena 3 anni prima, targato Fritz Lang. Girando questo film Hitchcock impara un’altra lezione fondamentale: la semplicità. Si definisce un ‘semplificatore’ piuttosto che un ‘complicatore’ (che paragona invece a un cattivo oratore che si ascolta mentre parla perdendo il filo del discorso). E’ essenziale semplificare per provare in prima persona le emozioni che si vogliono suscitare nel pubblico, e per avere il controllo del tempo senza perdere la bussola.

  • IL CLUB DEI TRENTANOVE (1935)

Siamo nel 1935 e segue un altro successo per Hitchcock, questa volta tratto da un romanzo di John Buchan: Il club dei 39 (da non confondere con il remake di Ralph Thomas). In sintesi: un giovane canadese fugge da Londra e si reca in Scozia per ritrovare le tracce delle spie che hanno pugnalato una donna nel suo appartamento. Sospettato di omicidio dalla polizia e braccato dalle spie, attraversa mille insidie ma tutto finisce bene.

E’ un lavoro fondamentale per la filmografia dell’autore per quattro motivi:

– L’evidente influenza espressionista, che qui tocca l’apice, benché già presente in precedenti opere;

– Il primissimo utilizzo di quello che sarà il ricorrente modo di presentare avvenimenti drammatici con toni leggeri: l’understatement. Tuttavia, il vero capolavoro che utilizza questa figura stilistica tipicamente britannica sarà La congiura degli innocenti (1955);

– Per la prima volta Hitchcock inizia a ‘forzare’ la sceneggiatura, nel senso che non si attribuirà più molta importanza alla verosimiglianza dell’intreccio, per lasciare spazio all’emozione pura (fondamentale a tal proposito è la splendida sequenza del treno, dove si susseguono vari siparietti inquietanti, concatenati tra loro);

– La rapidità dei passaggi (è un film enormemente ricco di idee): Hitchcock tende a eliminare le scene unicamente funzionali allo svolgimento della narrazione, per servirsi solo di quelle che sono divertenti mentre si girano e altrettanto quando si vedono. Il regista rimarca infatti come al tempo fosse un genere di cinema che spesso irritava i critici ma che piaceva molto al pubblico; questo perché quando un critico guardava un film era solito analizzare la sceneggiatura con sguardo logico, e sotto questo profilo quella hitchcockiana non stava chiaramente in piedi. I critici giudicavano elementi di debolezza quegli aspetti che costituivano l’essenza stessa del cinema Hitchcockiano, a partire da un’estrema disinvoltura nei confronti della verosimiglianza; ma quest’ultima a lui non interessava minimamente, perché “non c’è nulla di più facile da ottenere. Un critico che parla di verosimiglianza è una persona senza immaginazione”.

  • FINE DEL PERIODO BRITANNICO

Ricapitoliamo in breve le peculiarità del cinema hitchcockiano esaminate precedentemente: da cosa partiva per decidere il soggetto di un suo film? Cosa amava mettere in scena?

Nel dialogo con Truffaut già citato, avviene una digressione esplicativa: Hitchcock non avrebbe mai filmato ‘un pezzo di vita’ né qualcosa di puramente fantastico. Il primo perché “tutti lo possiamo facilmente trovare a casa nostra, nelle strade o all’ingresso di un cinema”; il secondo perché non permetterebbe al pubblico di immedesimarsi e riconoscersi nei personaggi. Hitchcock filmava storie inverosimili ma mai banali, piuttosto drammatiche e umane, perché “il dramma è una vita dalla quale sono stati eliminati i momenti noiosi“.

Riguardo alla tecnica, Hitchcock era dal principio contrario ai virtuosismi perché la tecnica deve arricchire l’azione, non stupire il capo operatore; mettere la cinepresa in un determinato posto deve avere il solo fine di ottenere la scena nella migliore forma possibile. La bellezza delle immagini, la bellezza dei movimenti, il ritmo, gli effetti, tutto deve essere subordinato e volto all’azione.

Nel film del 1936 Amore e mistero compare un aspetto che si ritroverà poi costantemente nei suoi lavori successivi: la rappresentazione del personaggio negativo come una persona elegante, distinta, dotata di buone maniere, cortese e affascinante.

Appena 4 anni dopo, nel 1940, termina il suo “periodo britannico”: il lavoro in Inghilterra sviluppò e ingrandì il suo istinto naturale delle idee, ma la tecnica rimase stabile a partire da Il Pensionante. Non per niente Hitchcock definisce questo primo periodo quello “delle sensazioni” mentre il secondo – iniziato con Rebecca, la prima moglie (1940) – quello “della formazione delle idee”. Il quadro dipinto da Hitchcock sul rapporto Inghilterra-cinema del primo ‘900 non era proprio roseo: era il primo Paese a guardare la Settima Arte con estremo disprezzo a causa della sua imperversante coscienza di classe e di casta. Per Hitchcock, l’inglese aveva intrinsecamente un atteggiamento insulare: solo lasciando il Paese si riusciva a trovare una concezione del mondo più universale, anche nel modo di raccontare una storia.

Questo articolo è stato scritto da:

Alberto Faggiotto, Redattore