Un ragazzo stringe tra le mani un bicchiere di latte, sulla testa porta una bombetta nera a sovrastare un viso dai tratti delicati che, tuttavia, si distorcono in un sorriso crudele, feroce. Questo è il volto di Alex DeLarge, protagonista di Arancia Meccanica (Malcolm McDowell), il cui primo piano è noto pressappoco a chiunque, al punto che il suo occhio azzurro, incorniciato da lunghe ciglia finte, è ormai iconico e inconfondibile. Si può quasi dire che il suo occhio di ghiaccio sia il marchio di fabbrica del film, la sua firma.  Sarà per il suo costume peculiare ad opera della celebre costumista italiana Milena Canonero o forse per la sua personalità complessa e ambigua, Alex si è guadagnato lo status di personaggio tra i più amati e noti della cinematografia kubrickiana ma anche, più generalmente, del cinema stesso. E se il nostro amato drugo lo sapesse, probabilmente ne godrebbe come un bambino e ci regalerebbe uno dei suoi indimenticabili ghigni.

ARANCIA MECCANICA: VIOLENZA GRATUITA O NECESSITÀ ESPRESSIVA?

Al tempo della sua uscita nel 1971, ma anche negli anni successivi, Arancia Meccanica fu sottoposto a numerose operazioni di censura.  A seguito di numerose minacce, Kubrick stesso fece ritirare il film dalle sale inglesi vietandone la proiezione fino alla sua morte, avvenuta nel 1999.  Si tratta, infatti, di una pellicola “problematica” che, nel corso della sua storia, è stata spesso ritenuta pericolosa e traviante poiché, secondo molti, inneggia e giustifica l’uso di sostanze stupefacenti, il degrado urbano, lo stupro e, soprattutto, la violenza gratuita, nel film ancora più orribile in quanto messa in atto da ragazzini. Questi sono i prodotti di una società marcia nella quale conta più la scelta del singolo, la sua personale distinzione del bene e del male, piuttosto che i grandi valori universali quali la giustizia, l’uguaglianza, l’onestà, il bene e l’amicizia. A questo  proposito è necessario sottolineare che in numerose occasioni  Anthony Burgess, autore dell’omonimo romanzo da cui è tratto il film, e successivamente Stanley Kubrick hanno precisato di non aver mai avuto l’intenzione di mettere in scena una violenza fine a sé stessa, dal momento che questa è impiegata per analizzare una tematica estremamente filosofica quale il libero arbitrio che caratterizza fortemente il personaggio di Alex, le sue relazioni con il mondo esterno e il suo percorso interiore. Potremmo andare avanti all’infinito ad “arrovellarci il gulliver” su chi ha torto e chi ragione, sennonché la questione è, ovviamente, più complessa di così e cercheremo di sviscerarla proprio attraverso il protagonista, Alexander DeLarge.

Scrive Kubrick:

Alex è un personaggio che alla luce di ogni considerazione logica e razionale dovrebbe suscitare antipatia e anzi, con ogni probabilità, il pubblico dovrebbe aborrirlo. Eppure […] Alex ti trascina dentro la sua visione della vita. La storia produce questo effetto, che è per la mente del pubblico l’illuminazione artistica più piacevole e sorprendente. […] Alex simboleggia l’uomo nel suo stato naturale, lo stato in cui sarebbe se la società non gli avesse imposto i suoi processi civilizzanti.”

Già dai primi minuti del film si comprende che la vita di Alex e dei suoi compagni è molto diversa da quella di qualsiasi malcico (“ragazzo” in nadsat) della sua età: trascorrono le loro serate a combattere la noia attraverso rapine, risse e violenze di ogni genere, che vanno dal picchiare un povero senzatetto indifeso al violentare devočke (“giovani donne” in nadsat). Alex ritiene, infatti, che la strada sia la vera ed unica insegnante e che la scuola, d’altro canto, non è che un luogo finalizzato a “danneggiare la loro educazione”. Alex sceglie personalmente di compiere queste azioni negative, consapevole delle loro conseguenze eppure incurante di esse. A differenza degli altri drughi, la violenza è per lui piacere puro, uno sfogo dei propri istinti, un momento in cui allentare i freni inibitori e lasciar parlare unicamente gli impulsi.

“[…] Alex DeLarge è il diminutivo buffo di Alessandro il Grande, che si fece largo nel mondo a colpi di spada e massacri e lo conquistò. Ma è anche il nome di colui che alla fine è vinto, impotente e senza parole. Egli fu “A – lex”. La legge di se stesso, e diventò una creatura senza legge e senza lessico.”
-Anthony Burgess

Come avrete notato, i drughi comunicano utilizzando il nadsat, un particolare tipo di slang inventato dallo stesso Burgess. Il nadsat mischia l’inglese con il russo ed è una lingua molto fisica fatta di ripetizioni cantilenanti, parole inventate o provenienti da dialetti quali il Cockney e, infine, onomatopee. Un linguaggio che utilizzano solo loro e che finisce ancor più per ghettizzarli all’interno di una società distopica, fondata sulla sopraffazione, sulla meschinità e sull’uso della violenza, la quale diviene per loro una divinità da onorare ogni sera attraverso l’esercizio dell’amata “Ultraviolenza” che è facilitato dall’assunzione del latte+, una bevanda composta da latte mischiato ad alcune droghe mescaline e sostanze psicotrope.

IL BIANCO, I COSTUMI E LE LORO ISPIRAZIONI: IL LAVORO DI MILENA CANONERO

Il bianco troneggia nella prima parte del film: è il colore caratteristico del Korova Milk Bar, il loro punto di ritrovo, ma anche del latte+ e persino degli iconici abiti dei drughi, i quali indossano pantaloni, bretelle e camicie completamente bianchi, fatta eccezione per gli stivali e gli eleganti capelli neri che, insieme al bastone “da passaggio” di Alex, conferiscono loro un’aria quasi borghese. Il bianco si pone in contrasto con la brutalità dei protagonisti e, per tale ragione, perde la sua portata simbolica positiva poiché si pone in diretta relazione con il male o, come nel caso del latte+, spinge a compierlo. Allo stesso modo, il volto angelico di Alexander diviene l’incarnazione stessa del male, il volto di Lucifero, un angelo caduto e senza alcuna possibilità di redenzione. Inoltre, la costumista Milena Canonero ha dichiarato in un’intervista che l’ispirazione per il costume di Alex e dei suoi compagni sia derivata da un fenomeno sociale contemporaneo all’uscita del film: impossibile non cogliere le somiglianze tra lo stile dei drughi e la “divisa” tipica degli Skinheads, composta proprio da camicia, bretelle e anfibi con risvolto ai pantaloni. Il movimento degli Skinheads nasce in Inghilterra verso la fine degli anni ’70 ed è composto da giovani anticonformisti provenienti dalla classe operaia. In quegli anni, il movimento ha attirato numerosi pregiudizi dando luogo a incomprensioni a causa di correnti nazifasciste che si sono insediate nella sottocultura stravolgendola dall’interno e compiendo linciaggi e atti brutali contro minoranze etniche e religiose. Contemporaneamente, come reazione a questa appropriazione indebita, alcuni gruppi originali diedero vita a numerose fazioni antifasciste, antirazziste, anarchiche, apolitiche o comuniste, prendendo le distanze da quelle azioni orribili, ma ciò non bastò a far cambiare idea all’opinione pubblica che continuò per anni a guardarli con sospetto, etichettandoli come pericolosi e violenti. A questo punto non ci sorprende che il loro stile inconfondibile sia stato di ispirazione alla Canonero per il costume dei drughi.

ALEXANDER DELARGE: VIOLENZA A RITMO DI MUSICA

Alex è il leader del gruppo e ci viene presentato sin dalle prime sequenze come un giovane aggressivo, spietato ma anche come un esteta colto e astuto. Si diletta di musica classica e, in particolare, nutre un amore spropositato per Ludwig Van Beethoven, il cui ascolto suscita in lui immagini violente e al tempo stesso erotiche. La nona sinfonia del compositore lo scuote, lo eccita ed è una droga più potente della mescalina stessa, è l’ispirazione che lo sprona all’azione. La bellezza della musica, quindi, si fonde all’esercizio della violenza, anzi lo amplifica, ne è la fonte primaria. E’ proprio la musica a spingere e ad accompagnare Alex durante questi atti orribili, a liberare i suoi istinti primordiali, dionisiaci.  

“[…] E d’un tratto capii che il pensare è per gli stupidi, mentre i cervelluti si affidano all’ispirazione, e a quello che il buon Bog manda loro. La musica mi venne in aiuto. C’era una finestra aperta con uno stereo, e seppi subito che cosa fare”
-Alex Delarge in A Clock Work Orange.

Celebre è la scena dell’irruzione nella casa dello scrittore, scena drammatica nella quale i drughi distruggono parte dell’abitazione, si prendono beffe del proprietario e violentano la povera moglie.
Questo momento del film è reso ancor più atroce dal motivetto che Alex canticchia mentre colpisce l’uomo: Singin In the Rain, la canzone pilastro del cinema classico hollywoodiano, tratta dall’omonimo film e cantata da uno spensierato e romantico Gene Kelly.
Lo stesso tipo di spensieratezza risiede anche nel protagonista poiché i suoi impulsi famelici stanno per essere saziati da una bella dose di ultraviolenza.

DALLA LEGGE DEL TAGLIONE ALLA CURA LUDOVICO

A seguito del tradimento, anzi “ammutinamento”, dei suoi compagni inizia il declino del giovane drugo. Dopo un colpo finito male, Alex viene arrestato e costretto a scontare 14 anni con l’accusa di omicidio.

La violenza, tuttavia, raggiunge il protagonista anche in carcere, dove è sottoposto a numerose umiliazioni, vessazioni, avances da parte dei detenuti e percosse delle guardie che sembrano obbedire solo alla legge dell’ “occhio per occhio, dente per dente”. Alex in prigione perde la sua identità, diviene un numero, e l’unica cosa da cui sembra trarre godimento è la religione. Passa, infatti, ore a leggere le sacre scritture traendo piacere dai racconti di flagellazioni, uccisioni, stupri e torture.  È il suo unico modo per placare la sete di ultraviolenza che è sempre presente in lui.
Nel momento in cui Alex viene scelto per la perversa “Cura Ludovico” inizia il suo vero inferno, e da carnefice diventa vittima.

“Se prima non avessimo visto Alex agire come delinquente brutale e spietato, sarebbe stato fin troppo facile essere poi d’accordo sul fatto che lo Stato commette una colpa più grave nel privarlo della sua libertà di scelta tra il bene e il male.”
-Stanley Kubrick, Da “Kubrick” di Micheal Ciment.

La società, sottoponendolo alla sperimentazione, lo priva della libertà di scelta, costringendolo al bene e privandolo della sua natura. Alex è, quindi, obbligato a reprimere la sua indole violenta nella convinzione sociale di essere finalmente “sano”, perché la violenza è una cosa malata e orribile. Si parla di una riabilitazione forzata, non spontanea né interiorizzata ma al limite della tortura. Dopo appena due settimane di cura, il “redento” ne esce trasformato e viene gettato nuovamente nella società, un mondo che oramai non lo accetta più e in cui non riesce più ad integrarsi né a difendersi.  Infatti, se Alex è stato rieducato e reso incapace di fare del male, la società invece ha conservato la sua malvagità, la sua sete di violenza e di vendetta. Una volta tornato in strada, Alex incontra coloro cui ha fatto un torto o recato dolore, come i suoi genitori, i compagni Dim e Georgie (divenuti pubblici ufficiali), il senzatetto e infine lo scrittore, ormai vedovo. Questi decidono di regolare i conti ma lui, ormai “guarito”, non può fare nulla per difendersi a causa del trattamento cui è stato costretto. Ad ogni tentativo di reazione una nausea lo scuote costringendolo all’immobilità. E, come se non bastasse, Alex non può né avere un rapporto sessuale senza provare repulsione né ascoltare la nona di Beethoven, poiché colonna sonora di quei filmati raccapriccianti che è stato costretto a guardare durante la cura che, non ha caso, si chiama “Ludovico” proprio in omaggio al suo amato compositore. Nel momento in cui Alex perde la sua libertà, diviene il modello del perfetto cittadino ma cessa di essere uomo.

APOLOGIA DI UN VIOLENTO: IL TRIONFO DEL DIONISIACO SULL’APOLLINEO

Nonostante la società pensi il contrario, risulta impossibile eliminare completamente l’aggressività di un singolo se non c’è volontà da parte dell’individuo, poiché si finisce con il castrarlo lasciandolo alla mercé della violenza altrui. E’ meglio che resti così, violento, brutale, piuttosto che un uomo privato della possibilità di scegliere tra il bene e il male. A conferma di ciò, il film si conclude con un Alex finalmente guarito dagli effetti della Cura Ludovico e che, ingessato e steso sul lettino dell’ospedale, si gode la sua gloria di “vittima dello stato”.

Le ultime parole di Alex sanciscono la vittoria finale del Dionisiaco sull’Apollineo: la sua precedente redenzione è stata solo apparente in quanto non dettata da una scelta personale. La tendenza alla depravazione è rimasta, infatti, celata nel suo inconscio e neppure una cura perversa come quella è riuscita a sopprimere le sue bestiali pulsioni  dionisiache che continuano a manifestarsi nella sua testa,  sotto forma di immagini, e a gridare di essere soddisfatte, accompagnate dalle note della sua tanto amata nona di Beethoven.

“Colui che è più ricco di pienezza vitale, il dio e l’uomo dionisiaco, non solo può concedersi lo spettacolo dell’orrore e della precarietà, ma perfino l’azione terribile e ogni lusso di distruzione, di dissolvimento, d’annientamento; malvagità, assurdità, deformità gli appaiono in un certo senso permesse in conseguenza di uno straripamento di forze generatrici e fecondanti che possono fare di ogni deserto ancora una contrada fertile ed ubertosa”
– Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, 1882

Questo articolo è stato scritto da:

Benedetta Lucidi, Redattrice