Nella collettiva memoria cinematografica associamo Al Pacino a film come Il Padrino, Scarface e Heat. Sono questi, del resto, i ruoli che lo hanno reso noto non solo all’ambito circoscritto agli appassionati di cinema, ma esteso al sapere culturale di chiunque. Esattamente come le migliori sceneggiature si possono sintetizzare in una sola frase, i migliori attori — o comunque quelli che vendono di più — vengono associati a un determinato archetipo. Quando qualcuno pensa ad Al Pacino, dunque, pensa a quel tipo personaggio sicuro di sé, aggressivo e all’incessante ricerca di redenzione. Indagando più a fondo nella sua filmografia, però, e soprattutto soffermandoci sugli esordi, troviamo una serie di ruoli che fanno emergere caratteristiche che si allontanano da questo stereotipo. Stiamo parlando di film come Quel Pomeriggio di un Giorno da Cani, Serpico e E Giustizia per Tutti. Si tratta di film di minor successo, ma non per questo meno fondamentali alla composizione di una ricca filmografia come quella di un attore ormai cementato nella Storia del Cinema. Vale quindi la pena indagare a fondo il decennio che coinvolge questo tipo di produzioni, ovvero gli anni Settanta, per far emergere un secondo archetipo antitetico al primo.
Al Pacino esordisce proprio in uno di questi ruoli. Panico a Needle Park è il primo lungometraggio da protagonista dell’attore, nel quale interpreta un giovane ragazzo che trascina la propria ragazza nel vortice dello spaccio di droga. In questa sua interpretazione già si anticipa quella recitazione nervosa che lo contraddistinguerà per tutta la durata della sua carriera. Differentemente dai ruoli a cui lo associamo, però, qui c’è anche tanta tenerezza. Non si tratta solo di una caratteristica del personaggio sceneggiato, ma di una scelta di recitazione ben specifica. Al Pacino fa tesoro del lato vulnerabile delle caratteristiche umane che emergono nelle situazioni di vita irrimediabili che spingono i personaggi verso l’oblio. Quella di Al Pacino in coppia con Kitty Winn (compagna su schermo come nella vita a quel tempo) è una disperazione pregna di gentilezza. Il personaggio si pone dunque in contrasto con il contesto sociale che lo sta divorando, illuminando un uomo nuovo che dirompe nel nuovo decennio con fragilità da vendere. Questa stessa scelta di recitazione la ritroviamo poi anche ne Lo Spaventapasseri e in Un Attimo, Una Vita. Al Pacino, con questa serie di ruoli interrotti solamente dalla trilogia de Il Padrino che consoliderà il più conosciuto archetipo associato all’attore, trasmette allo spettatore un “luogo sicuro” in cui le emozioni sono accolte anche in contesti esageratamente testoteronici.
Al Pacino rappresenta in questi personaggi la vulnerabilità del sesso maschile spesso poco rappresentata. Quel Pomeriggio di un Giorno da Cani può essere l’emblema di questa capacità attoriale. Sonny, il protagonista di una rapina andata a male che attrae a sé uno spropositato coinvolgimento mediatico, è un ragazzo triste, ansioso, stanco, e piange nel momento in cui ha bisogno di piangere. C’è anche tanta di quella rabbia drammatizzata citata in precedenza, ma è qui più associata agli eventi che caratterizzano la trama del film. È anche sicuramente l’eleganza del regista Sydney Lumet a contribuire a questo inquadramento, che si concentra non tanto sull’azione, ma sui primi piani, sulle situazioni di stallo, su Al Pacino appunto; in poche parole sugli effetti che l’azione ha sulla psiche e i sentimenti del protagonista.
Emerge quindi una fragilità umana che in realtà emerge anche nella trilogia de Il Padrino e nello specifico nel secondo capitolo, nel quale il personaggio è ferito e quindi vulnerabile, ma costretto a indossare una corazza che lo renda indistinguibile dalla mascolinità accettata dalle circostanze. Al Pacino ci comunica questa fragilità per via alternativa: attraverso gli occhi. Con un solo sguardo assente seduto al tavolo lasciato vuoto dopo i festeggiamenti, Al Pacino ci trasmette un’anima spezzata dalle circostanze che tenta di reggersi in piedi attraverso l’apparenza delle cose.
Questa vulnerabilità se la trascina anche fuori dal decennio degli anni Settanta, e la ritroviamo in Paura d’Amare. Una rom-com adulta, in cui il personaggio maschile straborda dal classico personaggio maschile. Qui i ruoli si invertono: il personaggio di Johnny è sensibile, a tratti disperato d’amore, mentre quello di Frankie —interpretato da Michelle Pfeiffer— indossa una corazza tenace che le protegga i sentimenti. Al Pacino, ancora una volta, ribalta gli standard hollywoodiani giocando sulle aspettative e sull’archetipo di personaggio che ci aspettiamo di vedere, penetrando quel target di spettatori che ha la possibilità di riscoprire la propria vulnerabilità.
Al Pacino verrà sempre ricordato come un gangster, un cocainomane o un mafioso, ma varrebbe la pena riesumare qualche dvd su uno scaffale impolverato di una biblioteca per poterlo affiancare anche al ragazzo premuroso, sensibile e sentimentale che è capace di dimostrarsi in alcuni suoi ruoli minori. Se come attore dimostra un range disarmante, su noi spettatori riflette la nostra stessa capacità di essere vulnerabili antagonisti di una società che ci vuole sempre impavidi e trionfanti.

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