Il film del 2006 di Richard Linklater mette in scena in modo assolutamente dettagliato e fedele l’omonimo racconto di fantascienza di Philip. K. Dick. E’ la storia di un futuro distopico in cui un agente della narcotici si infiltra in un gruppo di tossicodipendenti per raccogliere quante più informazioni possibili sulla Sostanza Morte, una potentissima droga in grado di creare assuefazione e di uccidere. Non sarà facile per Bob Arctor (Keanu Reeves) mantenere un equilibrio tra l’assunzione della sostanza (per non essere sospettato dai soggetti tenuti in osservazione) e la sua stabilità mentale, ricordando sempre il suo obiettivo e le mosse necessarie per realizzarlo. Non sorprende quindi che il regista abbia avuto a cuore in primo luogo il riuscire a trasmettere una sensazione di straniamento e inquietudine a livello visivo, che rispecchiasse il percorso interiore del protagonista. La soluzione scelta è la tecnica del rotoscope.

LA TECNICA DEL ROTOSCOPE

Il rotoscope (o rotoscopio) si usa per creare un cartone animato con fattezze realistiche, per cui si lavora su scene girate che vengono ricalcate. Le immagini vengono proiettate su un pannello di vetro traslucido che diviene un supporto per il disegno. Negli ultimi vent’anni la tecnica si è ovviamente evoluta con l’aiuto del digitale. Con l’uso di quest’ultimo non cambiano solo i modi di applicare la tecnica, ma anche le motivazioni: se alla sua origine il rotoscope serviva per risparmiare tempo e agevolare il lavoro dei disegnatori (permettendo di risolvere velocemente e con costi più limitati diversi problemi), ad oggi può essere sfruttata per un fine artistico, come nel caso di Linklater.

La tecnica nasce già nel 1917, ideata da Max Fleischer con suo fratello Dave, per il personaggio di Koko il clown; nel 1933 viene usata per una complicata scena di danza di Betty Boop. Viene in minima parte sfruttata anche dalla Disney in “Biancaneve e i sette nani” (1937) ma che scelse poi di servirsene solo per studiare i movimenti più complessi. La si può vedere inoltre nel videoclip di Take on me degli a-ha, diretto da Steve Barron. Ralph Bakshi ne fa largo uso nei suoi film di animazione e la si può ritrovare anche nel film “Yellow Submarine” (George Dunning, 1968).

Molto spesso capita che oggi i puristi dell’animazione siano scettici nei confronti di questa tecnica. In un’epoca in cui non vi sono più necessità di ordine economico o tecnologico secondo alcuni non vi è il bisogno di una riproduzione così precisa della realtà con l’animazione, e anzi si dovrebbe lasciare più libertà alla mano dei disegnatori.

LINKLATER E L’INTEROPLATED ROTOSCOPE

Vediamo il regista statunitense fare uso di questa tecnica in ben due film: “Waking life” (2001) seguito da “A scanner darkly” cinque anni dopo. Per entrambi i lavori la scelta del rotoscope è orientata verso un fine artistico, per contribuire a sottolineare un senso espresso dalla narrazione. Nel primo vi è il tentativo di costruire un’atmosfera onirica e surreale. Si racconta infatti la storia di un ragazzo che non riesce più a svegliarsi e continua a sognare. Una squadra di artisti lavora sul girato sovrapponendovi disegni fatti al computer, insistendo nell’evidenziare difetti nelle linee di contorno per restituire allo spettatore la sensazione voluta. Si rappresenta visivamente l’esperienza vissuta dal protagonista (lo si può vedere soprattutto in una delle scene iniziali, quando appaiono delle note musicali fluttuanti mentre dei musicisti stanno suonando).

Nel tentativo successivo di sfruttare il rotoscope, come abbiamo visto lo straniamento che si vuole trasmettere è riferito ad una potentissima droga. Il live action è seguito da una manipolazione digitale della durata di 18 mesi, e infine da un anno di dettagli in acquerelli sui fotogrammi. 

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Gaia Fanelli, Redattrice