Il cinecomic – o cinefumetto – è  un filone che, ormai da più di un decennio, domina incontrastato il mercato cinematografico mondiale, soprattutto grazie all’avvento del MCU, il quale ha di fatto imposto un nuovo standard al genere supereroistico contemporaneo, oltre che al cinema di intrattenimento in generale.  

Laddove nel passato, infatti, pellicole come Batman di Tim Burton o Il Corvo di Proyas erano trasposizioni di fumetti largamente influenzati dalla poetica e dalla mano dell’autore, oggi il mare magnum di Superhero Movies prodotti negli ultimi anni sembra aver ormai fagocitato sé stesso, portando all’appiattimento e alla standardizzazione della maggior parte dei contenuti. 

Se da un punto di vista commerciale, quindi, strutture produttive come il Marvel Cinematic Universe si sono rivelate estremamente di successo, bisogna riconoscere come da un punto di vista meramente artistico si sia arrivati – forse – a un punto morto, a un manierismo sterile. 

Per fortuna, però, prima del grande jackpot economico di Marvel e affini, c’è stato un periodo – tra gli anni ’90 e 2000 – in cui sono state prodotte alcune perle più o meno nascoste del genere, frutto del lavoro di grandi cineasti genuinamente appassionati di fumetti, che hanno impresso il loro amore per la narrazione supereroistica su pellicola prima che questo modo di fare cinema divenisse una macchina stampa dollari. 

In questo articolo verranno presentati, dunque, tre film di questo filone da scoprire o da riscoprire per i più esperti. 

DARKMAN – SAM RAIMI (1990) 

Sam Raimi è considerato – a ragion veduta – uno dei più grandi autori di Cinecomics della storia recente, avendo firmato quello che è forse il vero e proprio spartiacque per lo sviluppo del genere nella contemporaneità, ovvero la trilogia di Spiderman

Non tutti sanno, però, che già nel 1990 il regista de La Casa porta sullo schermo un prototipo di superhero movie estremamente interessante e innovativo per l’epoca: Darkman, con Liam Neeson e Frances McDormand. E’ corretto parlare, in questo caso, di un cinecomic embrionale, in quanto il film presenta in sé già tutte le caratteristiche di quello che sarà poi il canone di ogni origin story fumettistica, come ad esempio la trasformazione del protagonista, lo scontro/confronto con un antagonista e la presa di consapevolezza dell’eroe nel finale, il tutto, però, con una grandissima differenza di fondo: Raimi, non riuscendo ad ottenere i diritti per portare sullo schermo l’Uomo Ombra di Walter Gibson, decide di inventare ex-novo la figura di questo Super(anti)eroe, rinunciando all’adattamento di un’opera preesistente.

Grazie a questa libertà creativa, il regista riesce a mettere in scena una storia estremamente peculiare, che tratta tematiche come l’importanza – vacua – dell’estetica nella società contemporanea, l’alienazione del diverso e la crisi dell’identità dell’individuo, con una profondità raramente eguagliata nel genere. In questo senso è riuscitissima la prima metà di questo Darkman, in cui Raimi riesce a costruire una narrazione dalle atmosfere quasi anni ‘70 – basti pensare alle sequenze in cui il protagonista si trascina sotto la pioggia nei vicoli della città – creando un personaggio estremamente tormentato e complesso, che si avvicina in qualche modo alla caratura tragica dei grandi anti-eroi della New Hollywood

Il grande pregio del film, infatti, è proprio quello di riuscire a fondere questo tipo di approfondimento psicologico del personaggio con i canoni del cinema anni ’80 e ’90, oltre che con le dinamiche di un cinefumetto: dopo una prima parte introduttiva, nel secondo atto l’azione – girata sempre magnificamente da Raimi – si fa più intensa e frenetica; il lavoro sul trucco prostetico è straordinario e conferisce ulteriore spessore all’interpretazione già maiuscola di Liam Neeson; gli effetti speciali innovativi (per l’epoca) strizzano l’occhio a un certo tipo di cinema action e ricercano la spettacolarità e l’intrattenimento, senza risultare però mai eccessivamente invasivi nella narrazione. Inoltre, la regia e il montaggio tipici del cinema di Raimi vengono qui riproposti e funzionano in maniera eccellente, dando alla pellicola un ritmo veramente notevole e un impianto visivo degno dei migliori film del cineasta americano, che non abbandona la sua poetica per piegarsi al genere, ma anzi piega il genere alla sua poetica, come solo i grandi autori sanno fare. 

Tutti questi elementi contribuiscono a rendere Darkman uno dei cinecomics più importanti del suo tempo (anche se non direttamente tratto da un fumetto), rendendolo – di fatto – un grande punto di riferimento per tutto il filone supereroistico più cupo e dark che si sarebbe sviluppato a partire dal decennio successivo. 

Un film, dunque, troppo spesso dimenticato e che merita di essere riscoperto e riconosciuto sia per il suo valore in quanto opera a sé stante, sia per essere stato in anticipo di svariati anni rispetto ad altri prodotti che hanno avuto, purtroppo, più fortuna critica ed economica di Darkman

BLADE II – GUILLERMO DEL TORO (2002) 

La trilogia di Blade, uscita a cavallo tra il 1998 e il 2004, è il primissimo tentativo di adattamento di fumetti Marvel, insieme a X-Men del 2000 diretto da Bryan Singer ed è stata sicuramente seminale per lo sviluppo del genere nel cinema moderno. 

Dopo un primo capitolo generalmente ben accolto, infatti, la casa di produzione intuisce la potenzialità del progetto e decide di affidare il sequel a un regista molto promettente in rampa di lancio – all’epoca –  come Guillermo del Toro e di richiamare nuovamente lo sceneggiatore David Goyer (nome che tornerà spesso nel panorama supereroistico moderno, basti pensare a la trilogia de  Il Cavaliere Oscuro di Nolan) per tentare di bissare il successo del film precedente. 

Nasce così un cult assoluto dei primi anni 2000, uno dei cinecomic più riusciti in assoluto, nonché uno dei migliori adattamenti Marvel mai visti, che ancora oggi sorprende grazie a una messa in scena lontanissima dagli standard seriali in cui restano spesso imbrigliati i film del MCU contemporanei, un’opera che funziona sia come puro cinema di intrattenimento, ma che porta avanti contemporaneamente ed in maniera evidente il discorso autoriale del proprio regista. 

In Blade II, infatti, del Toro riesce a costruire perfettamente un mondo fantasy in cui l’umano è elemento marginale, se non addirittura assente, per tornare a riflettere ancora una volta sul concetto di mostruosità e di diversità: il protagonista – che qui trova un approfondimento psicologico ineguagliato nell’arco della trilogia – è di fatto una figura emarginata all’interno della comunità dei vampiri, un outsider che vive in solitudine a causa della sua natura unica. Questa caratteristica fondamentale del personaggio di Blade permette a del Toro di portare in scena un anti-eroe estremamente interessante e coerente con la sua poetica – basti pensare a quanto di Blade c’è in Hellboy – senza lasciare da parte, però, il lato più “Badass del’ammazzavampiri che regala scene action magistrali e al cardiopalma (su tutte quella della discoteca), oltre che un’iconicità visiva totale.

Proprio nell’insieme del suo design questo film trova un ulteriore punto di forza, soprattutto grazie a scenografie che rimandano spesso a un certo tipo di horror post-gotico (di nuovo la mano di del Toro si fa sentire), a un lavoro eccezionale sul make-up dei vampiri, soprattutto per quanto riguarda il villain principale che è passato alla storia grazie alle sue terrificanti mandibole, senza dimenticare i costumi che, nonostante riprendano un immaginario già esplorato con Matrix, rendono ogni personaggio iconico ed estremamente cool, su tutti ovviamente Blade che con le sue pistole dai proiettili d’argento e la sua leggendaria spada resta – ad oggi – un protagonista indimenticabile

Un film fondamentale, dunque, per lo sviluppo e l’affermazione del genere supereroistico nel cinema contemporaneo, una pietra miliare che ogni fan – e non – del cinecomic dovrebbe conoscere a memoria, l’ennesima dimostrazione di come anche l’adattamento di un fumetto, se messo in mano a grandissimi autori come del Toro, possa trasformarsi in un’opera cinematografica strepitosa che valica i confini del puro intrattenimento per trattare tematiche importanti. 

Una concezione di superhero movie che – forse – oggi è ormai perduta, dimenticata dalle produzioni sotto i miliardi di dollari di incassi portati a casa da film sicuramente più standard e meno autoriali di questo meraviglioso Blade II.

UNBREAKABLE – M. NIGHT SHYAMALAN (2000) 

Altra trilogia, altra grandissima origin story firmata da M. Night Shyamalan, nome che è sinonimo di notevole virtuosismo registico e di sceneggiature spesso sorprendenti, anche grazie agli ormai proverbiali plot twist  shyamalaniani che caratterizzano il suo cinema. 

Unbreakable non fa eccezione ed è – a tutti gli effetti – una delle opere più riuscite dell’autore, che riesce a creare qui una storia che è in primis un grandissimo omaggio al mondo del fumetto, vera e propria passione del regista come dichiarato in più di un’intervista, rappresentato come forma d’arte a sé stante, pregno di una statura culturale dignitosissima, al punto che il comic book viene dipinto come l’autentica narrazione epica della contemporaneità. 

Non partendo da una base letteraria, però, Shyamalan ha la possibilità di allargare la propria riflessione e spostarsi dal semplice omaggio fumettistico: in Unbreakable, infatti, l’arco narrativo di David Dunn (un grandissimo Bruce Willis) porta lo spettatore ad interrogarsi sulla natura stessa dell’eroe, sulla straordinarietà nell’ordinario, mettendo in scena un personaggio che appartiene a una dimensione comune, un uomo con problemi famigliari come molti e che viene messo di fronte alla sua – inconsapevole – eccezionalità dalla quale cerca di sottrarsi. 

Il film in realtà, a detta dello stesso Shyamalan, è un unico grandissimo primo atto che analizza la presa di coscienza dell’Eroe: manca infatti qualsiasi tipo di scontro con un villain, manca il momento in cui il protagonista si mostra alla città nella sua nuova “forma” e la dimensione super di Bruce Willis è ridotta all’osso; al contrario la pellicola si concentra solamente sull’interiorità del personaggio di Dunn, sulla sua psicologia, sul percorso che deve compiere per accettare la sua natura e capire chi sia veramente, per accettare il ruolo che deve assumere per proteggere la comunità e la sua famiglia.

Oltre quindi a un discorso quasi meta-supereroistico estremamente interessante e riuscito, che per forza di cose qui è stato sintetizzato ai minimi termini, il film si rende notevole soprattutto per la messa in scena di Shyamalan, il quale firma qui uno dei lavori registici più sorprendenti dell’intero filone cine-fumettistico, pareggiato forse solamente dal grandissimo Hellboy: The Golden Army del già citato del Toro, fatto di strepitosi piani sequenza e di punti macchina sorprendenti (basti pensare alle due sequenze d’apertura veramente indimenticabili), che regalano scene dall’impatto visivo straordinario, come quella della piscina o di Bruce Willis che solleva il bilanciere in cantina. 

Un film, quindi, epocale e fondamentale per lo sviluppo del genere supereroistico contemporaneo, che è – giustamente – considerato uno dei punti più alti raggiunti nell’intera produzione di questo filone. Una pellicola straordinaria per messa in scena, interpretazioni e sceneggiatura, un esempio di cinema al quale – forse – oggi il mondo hollywoodiano dovrebbe ispirarsi maggiormente. 

Questo articolo è stato scritto da:

Alessandro Catana, Caporedattore