Sottovalutare v. tr. [comp. di sotto- e valutare] – Considerare una persona o una cosa meno di quello che  effettivamente vale. 

Nel discorso cinematografico contemporaneo le parole “sottovalutato” e “sopravvalutato”  vengono molto spesso utilizzate a sproposito per riflettere un’opinione soggettiva. L’errore in cui di norma si cade è quello di non specificare chi effettivamente sottostima o sovrastima il prodotto in questione: un film può, infatti, essere valutato in maniera fredda dalla critica specializzata, che magari si accanisce in maniera esagerata nei confronti di una pellicola; può venire ignorato dal pubblico che non riconosce un’opera di qualità che, dunque, floppa al botteghino; oppure può scivolare ai margini, se non sparire completamente, dal dibattito cinefilo sulle piattaforme web dedicate. 

Laddove molte pellicole subiscono un trattamento simile a ragion veduta, ricevendo critiche negative su più fronti, è altrettanto vero però che esistono prodotti che vengono sottostimati da una o più parti in maniera ingiusta e che meriterebbero una rivalutazione, oppure una maggiore attenzione da parte dell’opinione cinefila.

In questo articolo verranno presentati tre film di tre grandi registi che – secondo la soggettività di chi scrive – vengono, in qualche modo, sottostimati da critica, pubblico o dalla comunità web e che, appunto, meritano di essere riscoperti e rivalutati. 

BLACKHAT (MICHAEL MANN, 2015)

Michael Mann è, senza dubbio, uno dei cineasti più importanti degli ultimi 40 anni, avendo al proprio attivo una filmografia che comprende pellicole incredibili come Collateral, Insider e Strade Violente, oltre che un capolavoro indiscusso della storia del cinema come Heat – La Sfida

Nonostante ciò Blackhat, ultimo lavoro del regista, datato 2015, è stato un flop su tutti i fronti: in primis ha fatto segnare una perdita economica disastrosa, con un passivo di circa 50 milioni di dollari a fronte di un budget di 70, denotando un generale disinteresse del pubblico nei confronti del film. Oltre a questo primo fattore, la critica specializzata ha riservato opinioni molto contrastanti all’uscita, per poi stabilizzarsi su valutazioni generalmente sotto la sufficienza (come testimonia il Metascore del film, fermo a 51 punti su 100), visione confermata anche dal web, dove il film è ormai uscito dal dibattito e viene considerato il meno riuscito di Mann (5,5/10 su IMDb; 2,9/5 su Letterboxd).

Viene spontaneo chiedersi, dunque, se questa pellicola sia veramente così anonima e zoppicante e se il flop totale sia coerente con la qualità del prodotto. 

La risposta, a parere di chi scrive, è no: Blackhat è un’opera che non è chiaramente esente da difetti – su tutti forse qualche lungaggine nella seconda metà – ma che mette in scena un’analisi socio-politica molto interessante di una contemporaneità iper-digitalizzata nella quale, ormai, le minacce sono spesso invisibili e si nascondono nel sottobosco informatico più oscuro e profondo. 

Sarebbe sufficiente la bellissima scena iniziale in cui la macchina da presa “entra” all’interno di un circuito elettronico al ritmo di una squadra militare d’assalto per comprendere la riflessione di Mann intorno alla nuova guerriglia digitale del Terzo Millennio: in Blackhat i codici prendono il posto dei carri armati, i dati rimpiazzano i fucili (tranne per qualche rara scena) e i software diventano pericolosi come cacciabombardieri. 

Oltre a questo elemento, già di per sé riuscitissimo, il regista allarga la questione a un contesto umano per parlare della sovrapposizione fra fisico e digitale, dell’incorporeità dell’essere umano nella società contemporanea. In questo senso è significativa la figura del cyber-terrorista a cui i protagonisti danno la caccia: egli, infatti, per quasi due ore di film appare soltanto sotto forma di messaggi digitali, di indirizzi IP, di conti bancari online, senza mai palesarsi fisicamente, restando una minaccia eterea, contemporaneamente onnipresente ed evanescente. Emblematica in questa lettura è la meravigliosa resa dei conti finale, la quale – in maniera ironica e geniale – avviene con un corpo a corpo serratissimo e “analogico”, in cui il dialogo tra i protagonisti risulta esemplificativo dell’intero ragionamento tematico del film. 

Per concludere, oltre a questa complessità di fondo, la pellicola è notevole anche per la messa in scena tipicamente manniana, con scene d’azione strabilianti e contesti metropolitani fotografati e inquadrati come solo il regista di Chicago sa fare. 

Un film, alla fine dei conti, ingiustamente sottovalutato, che merita di essere riscoperto e apprezzato per la sua bellezza visiva, oltre che per lo sguardo consapevole e maturo sulla contemporaneità, che lo rende – forse – il primo vero cyber-war movie.  

MILLENNIUM – UOMINI CHE ODIANO LE DONNE (DAVID FINCHER, 2011)

Se per film come Blackhat si parla di prodotti considerati mediocri, ma che in realtà hanno qualcosa di molto più interessante da dire di quanto appaia, esistono anche pellicole che ricevono il plauso della critica, ma che, nonostante ciò, vengono considerate dalla comunità cinefila come opere minori di grandi registi, come questo Millennium – Uomini che odiano le donne.

Nonostante, infatti, una buona ricezione del pubblico – con incassi che hanno più che raddoppiato il budget di partenza – e un responso critico decisamente positivo, con una valutazione media che supera largamente la sufficienza abbondante (Metascore 71), dopo dieci anni dall’uscita nelle sale, questo film sembra non aver attecchito nel cuore degli appassionati, i quali molto spesso lo relegano tra le opere minori di Fincher. 

Bisogna, ovviamente, riconoscere come il regista di Denver abbia firmato opere decisamente più cult e influenti, come Fight Club o Seven, ma al netto di ciò, è corretto considerare questa pellicola del 2011 come un prodotto dimenticabile della sua carriera? 

Un’altra volta, la risposta è no: Uomini che odiano le donne è un’opera che vive dello stile cinematografico di Fincher in ogni inquadratura e che è perfettamente in linea con i prodotti più conosciuti della filmografia del regista. 

Innanzitutto, il film è un tetrissimo thriller con ampie influenze noir, che sorprende grazie a una sceneggiatura di ferro, avvincente e intricata, oltre che a un ritmo narrativo perfettamente calibrato. Tutta la parte centrale dedicata all’investigazione è magistrale ed è gestita da Fincher con una sapienza incredibile: i tempi sono sempre quelli giusti, il lento svelarsi del mistero è molto affascinante e tiene lo spettatore incollato allo schermo nonostante il corposo minutaggio, fino ad arrivare all’efficacissimo e inaspettato colpo di scena finale, messo in scena dal regista in maniera notevolissima. 

Oltre a ciò, lo stile visivo di Fincher trova in questo film una delle sue massime espressioni: la regia è glaciale e chirurgica; il montaggio (giustamente premiato agli Oscar del 2012) è semplicemente perfetto in ogni momento e riesce – da solo – a creare picchi di tensione altissimi; la fotografia (anch’essa candidata agli Oscar) gioca principalmente con i gialli, creando ambienti sporchi, quasi pastosi, che trasmettono il peso delle situazioni raccontate, oltre che con i toni freddi del grigio e dell’azzurro per le scene in esterna, come a sottolineare la freddezza morale del luogo in cui si svolge l’azione; per non parlare poi della colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross, vero e proprio gioiellino dei due fidati collaboratori di Fincher. 

Nonostante, quindi, questo film si renda notevole sia per l’efficace narrazione di un racconto violentissimo e crudissimo, fatto di ossessioni e di abusi, sia per un comparto tecnico decisamente al pari delle opere più famose del regista, ciò che veramente ruba la scena sono le interpretazioni degli attori, tra le quali un Daniel Craig che dimostra di essere un grande interprete e di poter dare moltissimo anche svestendo i panni di 007;  uno Stellan Skarsgard in parte – perfettamente a suo agio in un ruolo ambiguo e malevolo – e una Rooney Mara strepitosa, nella prova più importante della sua carriera, che veste i panni della vera protagonista della storia, ovvero Lisbeth Salander, un personaggio decisamente complesso ed estremo, reso con una maturità attoriale totale. 

Una pellicola che ha, dunque, numerosissimi elementi interessanti e che, ancora una volta, meriterebbe più rilievo di quello che ha al momento, un’opera che dovrebbe essere riconosciuta, se non come una delle più importanti a livello di impatto culturale e cinematografico,  come una delle migliori pellicole del regista sul piano puramente filmico. 

FUGA DA LOS ANGELES (JOHN CARPENTER, 1996)

Per chiudere questo articolo, un film universalmente sottovalutato, non compreso da pubblico, critica e appassionati, ovvero Fuga da Los Angeles del grandissimo John Carpenter

Pellicola che è, di fatto, un remake spacciato come sequel del capolavoro del regista, Fuga da New York (1981), e che ne riprende dinamiche narrative, critiche sociali e linguaggio visivo, allargando però in maniera geniale lo sguardo carpenteriano sulla realtà dell’epoca. 

Proprio per questo motivo, forse, all’uscita il film non fu capito, portando a un flop clamoroso con incassi che non coprirono nemmeno la metà del budget, venendo stroncato dalla critica e condannando Carpenter al definitivo ostracismo di Hollywood e degli addetti ai lavori. 

Nonostante negli ultimi anni la filmografia del regista sia stata fortemente rivalutata e riconosciuta come una delle più importanti della storia del cinema, questo Fuga da Los Angeles continua a essere considerato una pellicola di serie B, un prodotto quasi trash e poco ispirato, che copia il fratello maggiore newyorkese in una malriuscita operazione commerciale. 

Se però, perfino lo stesso Carpenter dichiara di preferire questo film rispetto al predecessore, vedendolo come un progetto più ricco e maturo, perché Fuga da Los Angeles viene così largamente sottovalutato ancora oggi? 

A prima vista quest’opera può effettivamente sembrare banale e addirittura pigramente messa in scena in termini visivi, ma se si guarda con più attenzione e si considerano le intenzioni carpenteriane dietro al progetto, ci si accorge facilmente della critica geniale che il regista muove verso il sistema hollywoodiano degli anni ’90: in primis la scelta di Los Angeles come prigione a cielo aperto è estremamente significativa, laddove in Fuga da New York, infatti, la città criminale era metafora della critica allo stile di vita Yuppie degli anni Ottanta, qui Carpenter applica lo stesso paradigma per spostare la sua satira pungente sul mondo del cinema e sullo star-system.

Ecco allora che Snake Plissken, già protagonista iconico del film precedente, si trova ad incontrare personaggi sfigurati dipendenti dalla chirurgia estetica, imprenditori improvvisati e truffatori, ragazzine appena adolescenti iper-sessualizzate, senza dimenticare ovviamente la sede della Universal sommersa e la famosissima scritta HOLLYWOOD in fiamme. Un contesto estremamente grottesco, dunque, che ha fatto storcere il naso a molti, ma che è di fatto una rappresentazione lucida e palese del pensiero di un Carpenter ormai ai margini dell’industria dopo una serie di flop, dovuti in parte anche all’avvento del cinema muscolare americano a partire dagli anni ’80. Filone contro il quale il regista si scaglia con forza, realizzando scene d’azione con effetti digitali volutamente malfatti, come la famosissima e geniale scena del surf o l’arrivo in sottomarino di Plissken a L.A., in cui Kurt Russel pilota il mezzo tramite un joystick palesemente giocattolo, con l’obiettivo di ridicolizzare e prendere di mira l’uso ormai intensivo della nascente C.G.I.

A questo interessante discorso quasi metacinematografico, Carpenter accompagna un sottotesto politico e sociale fortemente critico verso l’America del tempo – elemento caratteristico di tutta la sua produzione – dipinta come uno stato fascista e reazionario, xenofobo e bigotto, fino a un epilogo di un pessimismo disarmante, pieno di nichilismo e sfiducia verso il sistema statunitense. 

Un film, quindi, carpenteriano fino al midollo, che fa dell’ironia, del grottesco e della satira i suoi punti di forza maggiori, un’opera coraggiosa, probabilmente troppo avanti rispetto ai tempi in cui uscì e che, ancora oggi, ha qualcosa da dare agli spettatori più attenti e che amano il grande cinema del Maestro.

Proprio come quell’altro capolavoro incompreso di Grosso Guaio a Chinatown, ma questa è un’altra storia….

Questo articolo è stato scritto da:

Alessandro Catana, Caporedattore