Il regista austriaco Michael Haneke non ha mai rifiutato l’etichetta di “autore”, dal carattere spesso schivo e austero, nei suoi film ha sempre dipinto l’alienazione e l’autodissoluzione esistenziali dell’Uomo moderno con un’impronta visceralmente personale, politica ma senza vizi da censore o moralizzatore. Haneke manca sui grandi schermi dal 2017, quando con Happy End ha concorso per la Palma d’oro alla 70a edizione del Festival di Cannes, e nel giorno del suo ottantaduesimo compleanno vogliamo consigliarvi tre film cardine del suo percorso artistico:
La Pianista (2001)
Erika (Isabelle Huppert) insegna pianoforte al conservatorio di Vienna. Un giorno dopo un concerto viene avvicinata dal giovane allievo Walter (Benoît Magimel), con il quale inizierà una relazione turbolenta, fatta di incontri casuali dai soli fini sessuali. Non è meno tranquillo il suo rapporto con la madre (Annie Girardot), che sfocia spesso in liti e gesti violenti. Il gioco dei sentimenti con Walter e il difficile legame materno costringeranno Erika a fare i conti con il suo carattere algido e il suo cuore di ghiaccio.
La Pianista, Grand Prix Speciale della Giuria, miglior interpretazione femminile e maschile alla 54a edizione del Festival di Cannes, rende ancora più chiara nel cinema di Haneke l’eco di quello di Chantal Akerman, che riverbera in ogni suo film sin dai suoi primi lavori: la ripetizione meccanica delle attività quotidiane arriva sempre a un punto di rottura, ne Il settimo continente (1989) di un nucleo familiare borghese, qui della vita di una donna sola, sessualmente repressa, dall’atteggiamento rigido e glaciale imposto dalla madre anziana e possessiva. Erika vive in una bolla in cui ogni gesto è pensato, meccanico e dove ogni reazione quotidiana e anempatica gonfia la bolla fino all’esplosione: proprio per questo quando la donna proverà attrazione sia erotica che intellettuale verso Walter, infrangendo il muro che separava ragione e sentimento, la ripetizione meccanica andrà in tilt, fino al gesto simbolico finale speculare a quello di Jeanne Dielman (1975), ma con differenze significative. Il gesto estremo di Dielman, di uccidere il Maschio, era eseguito con sconcertante apatia e distacco ed era più sovversivo, rivoluzionario, mentre quello di Erika è un gesto di arresa, autolesionista, di sconfitta, di fronte alla società che non accetterebbe mai le sue perversioni sadomasochistiche e voyeuristiche. Il rigore di Erika è riflesso in quello formale del regista austriaco, all’interno di una cinematografia in cui il dialogo costante con la condizione d’alienazione dell’Uomo del nuovo millennio, affrontata sempre con realismo analitico e coerente, evita ad Haneke di scadere in facili moralismi. La Pianista riesce a mostrare le conseguenze della frustrazione e della (conseguente) perfezione imposte dalla società in un trattato efferato e cinico che trova sua massima espressione nel viso di Huppert, tormentato da una profonda sofferenza mista a un gelido intellettualismo.
Il Nastro bianco (2009)
All’alba della prima guerra mondiale un villaggio nel nord della Germania protestante è sconvolto da avvenimenti misteriosi e inquietanti. Il film segue soprattutto un gruppo di bambini che fanno parte di un coro diretto da uno degli insegnanti del villaggio, coinvolti in una serie di incidenti apparentemente inspiegabili.
Oltre ad aver vinto il Golden Globe per il miglior film straniero, Il nastro bianco è stato candidato a due Premi Oscar per miglior film straniero e migliore fotografia (Christian Berger). Partendo dal suo carattere storico, la scelta di ambientare il film tra il 1913 e il 1914 non è casuale, essendo subito alle porte del periodo più tragico del ‘900 quando i semi dei totalitarismi erano già ben germogliati. Il ‘nastro bianco’ del titolo è eloquente: un’idea, per quanto buona, se trasformata in un sistema di vita diventa un’ideologia, costituendo un potenziale ed enorme pericolo. Spesso le radici del Male, infatti, sono da rintracciare nell’educazione, nel (contradditorio e fallace) rapporto con Dio, e nella difficile interpretazione della natura dell’Uomo. È vincente la scelta di lasciare il film in bilico fra un whodunit condito da dosi di sovrannaturale e un period drama, perché giustifica l’inserimento dei prodromi della minaccia nazista all’interno di un bianco e nero che, però, al contrario impedisce qualsiasi approccio naturalistico. “I fatti narrati non corrispondono a verità in tutti suoi dettagli“: la frase d’apertura ci mette in guardia che quella è una finzione, le cromature e la voce narrante fuoricampo sono funzionali a creare un distacco tra noi e le immagini, generando uno straniamento che rende il film universalmente valido e meno ancorato a un determinato periodo storico. Ad ogni modo, il regista non ci fornirà mai le risposte agli strani avvenimenti e lo sguardo di Martin nell’iconica scena con il crocifisso alle spalle racchiude in nuce l’intero film: uno sguardo allarmato, inquieto, ma anche accusatorio (nei confronti di chi? Del padre? Di Dio?).
Amour (2012)
Due insegnanti di musica in pensione, Georges (Jean-Louis Trintignant) e Anne Laurent (Emmanuelle Riva), affrontano la sfida più grande della loro relazione quando Anne subisce un ictus debilitante. Nonostante Georges stesso soffra degli acciacchi dell’età avanzata, si dedica con coraggio a prendersi cura di sua moglie, determinato a mantenere la promessa fatta a lei di non farla tornare in ospedale.
Una storia d’amore straziante e di rara potenza trae linfa vitale dal suo opposto, vale a dire da una delle più alte, profonde e toccanti rappresentazioni della decadenza senile mai viste al cinema. Haneke firma un film cardine, ripreso infatti poi con minor successo da altri registi come Gaspar Noé (Vortex, 2021), con cui dovrà confrontarsi chiunque deciderà di affrontare il graduale disfacimento fisico e psicologico della condizione umana. Amour contiene ogni singolo tratto distintivo della poetica del regista, la camera fissa, l’uso strumentale del fuori campo, i lunghi piani sequenza che creano una ripetizione alienante spezzata da impulsi di violenza (più emotiva che visiva): in questo senso è simbolica (e piuttosto d’impatto) la scelta di mostrare il cadavere di Anne già nella primissima sequenza, scena che spiazza e che ci fa sobbalzare con la stessa forza dell’ariete dei pompieri che sfonda la porta di casa dei coniugi. Questo espediente anticipa l’effetto rovinoso che il film avrà sul pubblico, mettendo al corrente gli spettatori sin dall’inizio dell’atroce fine di Anne e creando anche un parallelismo piuttosto inquietante con la consapevolezza propria di ciascuno di noi, quella che sopportiamo quotidianamente senza poter reagire.
Sebbene già avanti nella sua filmografia, se non hai ancora visto Amour potrebbe essere il film perfetto per iniziare a conoscere il cinema di Michael Haneke. Invece, in caso tu abbia già visto il film e ti stessi chiedendo il significato della scena con il piccione ‘intrappolato’ nell’appartamento, ci ha pensato lo stesso Haneke in A Companion to Michael Haneke (R.Grundmann, Wiley-Blackwell, 2010) a placare i tuoi dubbi: “Consider the pigeon… just a pigeon! There are lots of pigeons in Paris”. Perché… cos’altro vi aspettavate?
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