Nel lontano 1968 George A. Romero sorprese il mondo con un capolavoro del cinema horror, ovvero Night of the living dead, che presentò per la prima volta la figura dello zombie moderno che noi tutti conosciamo.
Da quel momento in molti presero ispirazione da Romero per raccontare la propria apocalisse zombie arrivando a modificare in parte la figura dello zombie stesso. Negli ultimi anni questo fenomeno ha ricevuto una nuova vita portando al pubblico storie di ogni tipo: dalla famosissima serie televisiva (tratta dai fumetti) The Walking Dead (2010-2022) alla commedia americana Zombieland (2009), ma anche il cult sudcoreano Train To Busan (2016), The dead don’t die (2019) nell’ambito del cinema d’autore o The last of us (2013) spostandosi nel mondo videoludico.
Sono dunque molti i prodotti che hanno sfruttato l’apocalisse zombie per dare vita a un vero e proprio sottogenere horror (potete leggere un approfondimento a riguardo cliccando qui), ma in pochi sono riusciti a non risultare stucchevoli o a portare qualcosa di originale. A quest’ultima categoria appartiene sicuramente 28 Giorni dopo del regista britannico Danny Boyle.
Orrore e Fascino – Lo specchio dell’umanità
Il film parte con un gruppo di ambientalisti che si introduce in un laboratorio in Gran Bretagna per liberare degli scimpanzè su cui alcuni ricercatori stanno facendo esperimenti. Proprio un ricercatore cerca di avvisare gli ambientalisti sul fatto che agli scimpanzé sia stato somministrato un virus altamente contagioso senza però riuscire a fermare il gruppo di ragazzi che dà inizio ad una violenta e sanguinosa serie di contagi che presto porterà tutti i presenti ad essere infetti. 28 giorni dopo (da qui il titolo) presso un ospedale di Londra un uomo irlandese di nome Jim (interpretato da un quasi esordiente Cillian Murphy) si risveglia dal coma a seguito di un incidente stradale, rimanendo stranito per via della desolazione dell’ospedale. Una volta vestitosi decide di uscire dall’ospedale ma una volta fuori si trova davanti ad una Londra desolata e priva di vita. Camminando spaesato e incuriosito scoprirà che la città è stata evacuata pochi giorni prima a seguito di un’epidemia proveniente dalla liberazione del virus sopracitato. Da lì il protagonista incontrerà altri personaggi tra cui Selena (Naomi Harris), Frank (Brendan Gleeson) e Hannah (Megan Burns) con cui, sentendo un avviso alla radio, intraprenderà un intenso e crudele viaggio alla ricerca di un posto sicuro gestito da un gruppo di militari maschi.
La pellicola prende forza già dalla sceneggiatura, scritta da Alex Garland (Ex Machina, Civil War) che si ispirò sicuramente al filone apocalittico di Romero ma in particolare al romanzo The Day of the Triffids (1951) dello scrittore inglese John Wyndham. La storia scritta da Garland risulta essere originale senza diventare banale ma anzi riuscendo a reinventarsi dopo l’incontro con i militari; inoltre il racconto si lascia andare a dualismi come quello della creazione di un nuovo mondo attraverso la distruzione delle persone (in questo l’incontro con i soldati ne è l’esempio perfetto), la perdita di umanità ma anche la speranza in un mondo migliore e per finire l’atrocità dell’apocalisse che può regalare un senso di tranquillità (come suggerisce la scena con i cavalli).
Oltre alla storia, Garland riesce a scrivere dei personaggi che rappresentano perfettamente l’umanità in ogni sua forma: infatti Jim rappresenta l’ingenuità, dato che non conosce il mondo in cui si è svegliato, e risulta spaventato ma allo stesso tempo affascinato da esso; Selena rappresenta la perdita di speranza e la consapevolezza che l’unico obiettivo è la sopravvivenza, ma anche il cambiamento e la rinascita della speranza persa; Frank rappresenta la civiltà in un mondo dove non c’è più civiltà, ma in cui vale la pena lottare nonostante l’orrore a cui si è sottoposti, trovando forza nella figlia Hannah che rappresenta il futuro dell’umanità che si oppone alla disumanizzazione degli infetti ma anche dei soldati.
Garland poi racconta anche la condizione a cui vengono sottoposti i soldati nella vita reale attraverso la follia e il terrore impressi da loro e attraverso la perdita di se stessi. Perdita che viene affrontata anche dal protagonista che si ritrova a combattere per il bene tormentando e uccidendo chiunque gli si metta davanti quasi a specchiarsi in uno degli infetti, mostrando che in realtà il virus non è nient’altro che una condizione umana nascosta in ognuno di noi e trovando quindi non più una perdita quanto un’orribile ma umana scoperta di sé.
Danny Boyle tra Frenesia e Tranquillità
Opere di questo genere hanno sempre dietro il lavoro di grandi autori e in questo caso ci troviamo davanti a Danny Boyle, regista britannico che riuscì a farsi notare con il suo controverso Trainspotting (1996) per poi farsi conoscere ad un pubblico più ampio con il suo apprezzato The Millionaire (2008) che gli è valso il premio Oscar come miglior regista.
28 Giorni dopo si colloca, a livello temporale, tra le due sopracitate, la pellicola infatti uscì nelle sale nel 2002 senza però avere un gran successo, questo anche perché Boyle non tentò di accostare il film al filone di Romero ma anzi cercò di evitare tali etichette.
Per quanto riguarda la messa in scena, Boyle si dimostra fin da subito in grado di far sentire allo spettatore un senso di timore nei confronti degli infetti, che vengono rappresentati come degli umani rabbiosi, con inquietanti occhi rossi, che si muovono in modo frenetico e distruggono tutto ciò che si trovano davanti. Questa frenesia viene perfettamente identificata nella regia di Boyle, che sembra riprendere una certa follia dei primi Mad Max di George Miller, oltre a rappresentare il prolungamento di uno stile iniziato con Trainspotting (potete approfondire sul film cliccando qui).
Il regista poi riesce a rappresentare perfettamente la desolazione di una Londra distrutta dall’apocalisse grazie alla fotografia di Anthony Dod Mantle (Dogville, Rush), che raffigura l’orrore dell’epidemia contrapposto alla bellezza visiva della stessa.
Le scene iniziali riguardano più questo aspetto della narrazione risultando horror proprio nella scoperta degli infetti grazie anche alle musiche di John Murphy (Sunshine, The suicide squad) che immergono lo spettatore nel mistero ma che poi spezzano il ritmo diventando frenetiche e paurose nelle scene degli assalti.
Come per la storia, anche nella messa in scena si notano dualismi accennati in precedenza, per esempio l’orrore contrapposto alla bellezza, la creazione attraverso la distruzione, l’atrocità e la tranquillità dell’apocalisse oppure l’umanità e la disumanizzazione dei personaggi. Proprio quest’ultimo punto è essenziale nella poetica del film che inquadra fin da subito gli infetti come se si trovassero dietro la macchina da presa, quasi a impersonare l’essere umano. E in questo senso assume importanza l’evoluzione del protagonista che risulterà comportarsi quasi come uno zombie (venendo inquadrato nello stesso modo) per distruggere un male portato dall’uomo stesso più che dall’apocalisse. Di questo ne è un riassunto perfetto la scena in cui un infetto si guarda allo specchio e sembra quasi tornare in sé per qualche istante prima di tornare ad essere zombie.
Ovviamente non mancano citazioni e rimandi a vecchi film che riguardano la figura dello zombie (non solo di Romero) ma la forza del film sta proprio in un’idea di regia molto personale e originale che si mescola perfettamente con la storia mettendone in risalto i vari aspetti, soprattutto nell’ultimo atto in cui viene fuori una certa idea di rinascita della società attraverso la violenza da parte di chi invece dovrebbe dare protezione, riuscendo però a dare una sorta di speranza all’umanità attraverso la scena finale. Il regista firma un film che riesce a spaventare in ogni momento grazie al dualismo della violenza e all’istinto di sopravvivenza riuscendo a rappresentare al meglio orrore e fascino della distruzione.
Boyle decide attraverso la macchina da presa di porre domande allo spettatore, di mostrare un ambiente frenetico che trasmette ansia ma anche tranquillo e affascinante, di farci sentire spaventati da quel mondo che inizialmente sembra tanto diverso dalla realtà ma che in fin dei conti ne è la rappresentazione.
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